Cultura | Arte

La Biennale è una terra straniera

Coloratissima, popolatissima, l'edizione a cura di Adriano Pedrosa è insieme una celebrazione della diversità e un'amara risposta alle crisi nostri tempi.

di Clara Mazzoleni

Sarà stato il titolo a suggestionarmi, ma quest’anno negli spazi della Biennale d’Arte di Venezia mi è sembrato di sentir parlare più lingue del solito: davanti a me al bookshop, in fila per acquistare la versione economica del catalogo, tutti si lamentavano (in inglese, francese, spagnolo) che fosse disponibile soltanto in italiano (la versione inglese ovviamente esiste, ma per qualche motivo, o errore, non era ancora disponibile). Tra i tanti “stranieri” ho avvistato un’italiana, Cecilia Alemani, curatrice della Biennale del 2022, che si aggirava da sola, con un’espressione felice, all’interno del Padiglione Centrale. Forse Stranieri Ovunque verrà ricordato come uno dei titoli più riusciti della Biennale, un po’ com’è successo con il perfetto e orribilmente profetico May You Live in Interesting Times del 2019 scelto da Ralph Rugoff.

Come ha spiegato il curatore Adriano Pedrosa, e come si può intuire, l’espressione Stranieri Ovunque ha più di un significato: significa che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri – «sono/siamo ovunque», scrive il curatore – ma anche che a prescindere dalla propria collocazione, nel profondo e di fatto si è sempre stranieri. Il titolo rimanda anche a Venezia, alla sua storia passata e presente: oggi la città conta circa 50 mila residenti, ma nei periodi di alta stagione può arrivare a contenere 165 mila persone in un solo giorno a causa dell’enorme numero di turisti e viaggiatori («stranieri di tipo privilegiato», sottolinea Pedrosa) che la visitano. «Ma si può anche pensare a questa espressione come a un motto, a uno slogan, a un invito all’azione, a un grido di eccitazione, di gioia o di paura: Stranieri Ovunque! E, soprattutto, oggi assume un significato cruciale in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo, dal momento che nel 2022 il numero di “migranti forzati” ha toccato l’apice (con 108,4 milioni secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e si presume che nel 2023 sia ulteriormente aumentato».

Non solo: Stranieri ovunque è anche il titolo di una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine installati alle Gaggiandre dell’Arsenale. Sono delle scritte al neon colorate che ripetono in tante lingue diverse l’espressione “Stranieri Ovunque”, a sua volta ripresa dal nome di un omonimo collettivo torinese che nei primi anni 2000 combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia. Come ha scritto il curatore, «il contesto in cui si colloca l’opera è un mondo brulicante di crisi multiformi che riguardano il movimento e l’esistenza delle persone all’interno di Paesi, nazioni, territori e confini; crisi che riflettono i pericoli e le insidie legate a questioni di lingua, traduzione e nazionalità, che a loro volta mettono in luce differenze e disparità condizionate da identità, cittadinanza, razza, genere, sessualità, libertà e ricchezza».

Crisi che la Biennale rispecchia perfettamente anche nelle sue dinamiche politiche: il padiglione russo che resta chiuso, quello di Israele che chiude poco prima dell’inaugurazione (con conseguenti polemiche), l’importanza delle opere d’arte esposte in quello ucraino, create nel mezzo dell’occupazione, la rivendicazione dell’esistenza di un padiglione palestinese che in tanti stanno condividendo nelle storie di Instagram e gli striscioni pro-palestina allestiti sia all’ingresso dell’Arsenale che dei Giardini. Per parlare di migrazione e decolonizzazione, Adriano Pedrosa ha selezionato artisti “stranieri”, immigrati, espatriati, diasporici, emigrati, esiliati o rifugiati, in particolare quelli che si muovono tra il Sud e il Nord del mondo.

Oltre ad essere il primo curatore dichiaratamente queer nella storia della Biennale Arte, Adriano Pedrosa (per conoscerlo meglio c’è questa bella intervista del New York Times) proviene da un contesto brasiliano e latinoamericano in cui l’artista indigeno e folk svolgono ruoli importanti. «Il Brasile è anche patria di molte diaspore», scrive, «una terra di stranieri, per così dire: oltre ai portoghesi che lo hanno invaso e colonizzato, il Paese ospita le più grandi diaspore africane, italiane, giapponesi e libanesi del mondo». Come osserva Pedrosa, il termine italiano “straniero”, il portoghese “estrangeiro”, il francese “étranger “e lo spagnolo “extranjero” sono tutti etimologicamente collegati alla parola “strano”. Secondo l’American Heritage e l’Oxford English Dictionary, il primo significato della parola “queer” è proprio “strange”. E quindi in mostra abbondano gli artisti queer, outsider, autodidatti, folk o folk, indigeni.

Un’edizione ben rappresentata dall’inedito aspetto dell’edificio del Padiglione Centrale, normalmente bianco e asettico, per l’occasione ricoperto da un coloratissimo, enorme murale realizzato dal collettivo brasiliano MAHKU (Movimentos dos Artistas Huni Kuin). Da guardare con calma e attenzione l’interessante progetto “Disobedience Archive”, l’archivio video di Marco Scotini incentrato sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo che include le opere di 39 artisti e collettivi realizzate tra il 1975 e il 2023. C’è poi un importante Nucleo Storico, composto da opere del XX secolo provenienti dall’America Latina, dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia realizzate da artisti che partecipano per la prima volta all’Esposizione Internazionale d’Arte – un modo per riconoscere un debito storico nei loro confronti – che comprende la sezione Italiani Ovunque, dedicata alla diaspora artistica italiana nel mondo nel XX secolo. Opere esposte con il sistema a cavalletti di vetro ideato da Lina Bo Bardi, lei stessa italiana trasferitasi in Brasile.

E a proposito di italiani, il Padiglione Italia, Due Qui/To Hear, a cura di Luca Cerizza e firmato dall’artista Massimo Bartolini, costituisce all’interno di questa Biennale energica e coloratissima un’eccezione: è un luogo quasi vuoto, di ascolto, pausa e meditazione. Opere minimali tra cui passeggiare, fermarsi e riflettere, lasciandosi accompagnare dalle bellissime installazioni sonore (immaginate intorno alle figure dell’albero e del bodhisattva), realizzate dalle giovani compositrici Caterina Barbieri e Kali Malone e uno dei musicisti più importanti della musica sperimentale degli ultimi cinquant’anni, Gavin Bryars (insieme al figlio Yuri Bryars).

Oltre al padiglione dell’Ucraina, e di quelli di Giappone, Nigeria, Croazia, Corea del Sud, Gran Bretagna, Stati Uniti e Vaticano (solo visite su prenotazione: ne parlavamo qui) assicuratevi di non saltare quello della Polonia, con l’opera del collettivo artistico ucraino Open Group. La mostra, intitolata Repeat after Me II, è composta da due video che mostrano i rifugiati della guerra in Ucraina replicare vocalmente i suoni di proiettili, colpi di cannone, sirene ed esplosioni, accompagnati da un testo che descrive un’arma letale. In sala c’è una serie di microfoni, come a suggerire la possibilità di un karaoke.