Attualità | Medio Oriente
Bashar al-Assad, il dittatore riluttante
Storia di un ragazzo timido che sognava di fare il medico e ha scelto oftalmologia perché il sangue gli faceva impressione, e che si è ritrovato a guidare uno dei regimi più sanguinari nella storia del Medio Oriente [dai nostri archivi].
Hafez Assad, padre carismatico della nazione siriana, ha cambiato nome due volte. La prima fu in giovanissima età, quando, iniziata la militanza nel partito socialista Ba’ath, decise di modificare il cognome con cui era nato – Wahish, “belva” – in Assad, “leone”. La seconda fu nei primi anni Novanta, quando, dopo oltre un ventennio di dominio assoluto sul Paese, comprese che era giunto il momento di pensare alla successione: serviva un nuovo leader in grado di proseguire il lavoro del patriarca, che era riuscito a pacificare una delle nazioni più instabili del Medio Oriente imponendo il suo pugno di ferro nel 1970 dopo un difficile decennio fatto di coup e contro-coup, oppure la Siria sarebbe nuovamente precipitata nel caos. Fu allora che Hafez Assad cominciò a farsi chiamare pubblicamente “Abu Basil,” Padre di Basil.
Rovesciando una tradizione patronimica diffusa altrove in base alla quale i figli sono riconosciuti socialmente tramite l’identità dei genitori (es. Dmitri Fyodorovich, Dimitri figlio di Fyodor), la consuetudine araba vuole che siano i padri a prendere il nome dei figli. Vale la regola del primogenito maschio: Abu Mazen, il padre di Mazen. Hafez Assad aveva tre figli maschi – Basil, nato nel 1962, Bashar, 1965, e Maher, 1967 – e una femmina, ma per un lungo periodo aveva accuratamente evitato di farsi chiamare Abu Basil, optando per un più asettico “Abu Suleyman,” a ricordare che era il padre della nazione araba intera – un popolo unito, secondo l’ideologia panaraba del Baath, e dalle origini eroiche come quelle dell’imperatore Solimano – prima ancora che di una famiglia. Giunto alla soglia dei sessant’anni, tuttavia, il vecchio leone si rende conto che non vivrà in eterno, che la gioventù siriana ha bisogno di un nuovo modello.
Su chi, tra i suoi figli, meriti la nomina alla successione non esistono dubbi. Basil non era solo il primogenito: atletico, coraggioso e portato all’arte del comando, bene si prestava a «ricoprire la funzione simbolica di un’ideale nazionale per la nuova generazione siriana», come riassume Nikolaos Van Dam, uno dei principali esperti di Siria contemporanea. Il padre vedeva in lui una figura solida, fidata e, quel che forse conta maggiormente, uno dei pochi potenti di Damasco che non fosse platealmente invischiato nella corruzione dilagante, vero tallone d’Achille del regime davanti all’opinione pubblica.
Basil comandava un’unità di élite nell’esercito, aveva condotto una serie di retate anti-corruzione che lo hanno reso estremamente popolare, molti giovani lo imitavano persino nello stile di abbigliamento: nessuno dei fratelli poteva reggere il confronto. Maher era un violento, un sadico, una testa calda che non godeva dell’approvazione paterna e che metteva a repentaglio la continuità stessa della dinastia: ad oggi, sono in molti a credere che dietro all’escalation di violenza dell’ultimo anno si celi la sua mano – prima ancora del presidente, sarebbe suo fratello minore a tirare le fila dei famigerati shabiha (“fantasmi,” in arabo), l’esercito di oltre 400 mila tra informatori e teppisti filo-regime che hanno permesso agli Assad di sopravvivere alla rivolta.
«Mentre stiamo qui a discutere, il vero presidente della Siria potrebbe essere Maher, e non Bashar», mi racconta Larbi Sadiki, commentatore di Al Jazeera, quando lo scorso 29 febbraio a Homs, città simbolo della rivolta piegata da un mese di assedio, entravano i carri armati della Quarta Divisione, la famigerata unità di élite guidata dal rampollo più giovane del clan Assad. Sempre a Homs una settimana prima avevano perso la vita sotto i colpi dell’artiglieria governativa la corrispondente del Sunday Times Mary Colvin e il fotografo francese Remi Ochlik insieme a una quindicina di siriani – per l’occasione l’ufficio del presidente rilasciò un comunicato in cui dichiarava di «non essere a conoscenza» della presenza di giornalisti stranieri, seguendo un copione di ignavia grottesca che, dall’esplosione della rivolta all’inizio del 2011, è divenuto il marchio di fabbrica della comunicazione assadiana.
Quanto a Bashar, il padre sceglie per lui un destino lontano dai giochi di potere. Chi lo ha conosciuto personalmente descrive il secondogenito della famiglia Assad come un ragazzo introverso e senza pretese, un pantofolaio amante della tranquillità e dei giocattoli tecnologici importati dall’Occidente. Una personalità a bassa intensità con una leggera vocazione nerd, ma che per fare contenti i genitori anziché informatica studia medicina. Unico problema: Bashar ha orrore del sangue, fobia che male si concilia con la professione medica, e di conseguenza sceglie di specializzarsi in oftalmologia. I genitori lo spediscono a proseguire gli studi a Londra. Il suo biografo David W. Lesch ha paragonato Bashar Assad al protagonista del Padrino: «Come Michael Corleone, Bashar in origine era destinato a rimanere lontano dagli affari di famiglia, e certamente non a dirigerli».
Il testimone passa al fratello cadetto nel gennaio del 1994, quando Basil si schianta a bordo della sua Mercedes contro uno spartitraffico nei pressi dell’aeroporto di Damasco. Bashar viene richiamato urgentemente in patria: si conclude il dorato esilio londinese, comincia l’iniziazione al comando. «Quanto è giunto al potere nel 2000, Bashar Assad è stato dipinto sovente come una figura spaesata, catapultata improvvisamente alla guida della Siria», mi racconta Van Damm. «Questa immagine del medico innocente ed estraneo al sistema poteva essere in parte veritiera all’inizio. Ma dobbiamo ricordarci che Bashar ha avuto ben sei anni di preparazione prima di assumere il comando, sei anni per diventare parte del regime».
Il nuovo erede segue un percorso di addestramento a tappe forzate, che include: l’ingresso nelle forze corazzate dell’esercito (’94), la nomina a maggiore della Guardia presidenziale (’95), il diploma presso la scuola di Stato maggiore (’98), il pilotaggio delle elezioni presidenziali in Libano, a quei tempi di fatto un protettorato siriano (’98), il grado di colonnello (’99), il ricevimento a Damasco del presidente libanese Émile Lahoud (’99).
L’ascesa del rampollo presidenziale ai vertici dell’ingranaggio è curata nel dettaglio non tanto dal padre, quanto dai di lui colonnelli, la cui sopravvivenza politica – nonché fisica – è legata a doppio filo alla continuità della dinastia baathista: hanno bisogno di un nuovo Assad pronto a subentrare al padre, una figura dal cognome forte per unificare un regime che comincia a dare segni di sfaldamento e che deve fare i conti con una montante tensione generazionale al suo interno. In particolare, il ministro della Difesa, il generale Mustafà Tlas, prende l’erede designato sotto la sua ala protettrice, curandosi bene di neutralizzare le principali minacce interne al regime e allo stesso clan.
Il primo obiettivo è Rifaat Assad, zio di Bashar. Entrato nella storia come “il macellaio di Hama” per via del massacro che nel 1982 costò la vita a decine di migliaia di persone, per due volte aveva cercato di spodestare il fratello maggiore Hafez, l’ultima delle quali tentando un golpe mentre il presidente era ricoverato in ospedale – «Crescere in una famiglia del genere deve avere lasciato ferite che neanche ci immaginiamo», dice Sadiki. I figli di Rifaat vengono invitati a lasciare ogni ambizione politica e dedicarsi al commercio. Si trasferiscono a Londra: sono facilmente convinti dal trattamento riservato agli altri potenziali rivali di Bashar, come il primo ministro Mahmoud Zubi, morto “suicida” mentre le forze speciali circondano la sua villa di Damasco.
Quando Hafez Assad passa a miglior vita, nel giugno del 2001, ogni cosa è pronta per la transizione. Nel giro di pochi giorni Bashar viene promosso da colonnello a luogotenente e nominato comandante in capo delle forze armate, il Parlamento approva un emendamento alla costituzione che abbassa l’età richiesta per accedere alla presidenza della repubblica da quaranta a trentaquattro anni (giusto l’età del giovane Assad), e in una riunione straordinaria il comitato centrale del Baath lo elegge segretario di partito. Durante i giorni immediatamente successivi alla scomparsa del padre, partecipa a ogni evento pubblico accompagnato dal generale Tlas. Il 10 luglio, a un mese esatto dalla morte di Hafez, Bashar viene eletto presidente con il 97,3 per cento dei voti in un referendum di cui è l’unico candidato. I plebisciti rimarranno una costante: nel 2007 ha inscenato una rielezione da maggioranza bulgara – «fu allora che il potere cominciò a dargli alla testa», mi racconta il suo biografo – lo scorso febbraio, invece, mentre città intere erano trasformate in teatri di guerra, ha fatto approvare alcune modifiche costituzionali in un referendum con il 90 per cento dei voti, ma solo il 57 di affluenza alle urne.
La stampa siriana si prodiga nel tessere le lodi della «transizione stabile» e, in misura minore, lo stesso vale per quella internazionale, che vede nel nuovo autarca educato in Occidente un potenziale, seppure cauto, riformatore: sul New York Times, Susan Sachs definisce Assad II «l’antitesi del passato introverso» che ha caratterizzato il regime paterno.
Il presidente trentenne racconta ai occidentali di essere un fan di Phil Collins e annuncia riforme su riforme – «questo è stato il suo primo errore, fare promesse che non era in grado di mantenere», mi dice Antonella Appiano, autrice del saggio-reportage Clandestina A Damasco (Castelvecchi 2011) – dosando accuratamente spinte riconciliatrici e gesti di conciliazione. Libera centinaia di detenuti politici (ma ne arresta altri), consente l’attivazione di alcune radio private, svecchia la macchina baathista obbligando i funzionari ad andare in pensione compiuti i sessant’anni, dà ai servizi segreti l’ordine di chiudere un occhio davanti alle attività politiche estranee al Baath, ma intima loro di sorvegliarle e impedire i contatti degli attivisti con l’estero: «Non avete il diritto di interdire, ma il dovere di sapere». È la Primavera di Damasco: «Un’illusione in cui hanno creduto molti – commenta Appiano – che il regime potesse essere riformato dall’interno e che Bashar fosse una specie di Erdogan siriano».
Su che cosa abbia sepolto definitivamente questa tiepida spinta modernizzatrice, esistono pareri discordanti: alcuni sostengono che Bashar sia stato fagocitato da un ingranaggio che non era in grado di controllare; secondo altri è stata l’alleanza imprevista tra partiti islamici, comunisti e curdi a impaurire il giovane dittatore, impreparato com’era a fronteggiare una opposizione semi-compatta (ne scrive Mirella Galletti in Storia della Siria Contemporanea). Il suo biografo David Lesch attribuisce l’involuzione di Assad all’incapacità di adattarsi a un mondo post Undici Settembre: la guerra in Iraq, le pressioni dell’amministrazione Bush, la dura reazione internazionale all’assassinio nel 2005 del politico libanese anti-siriano Rafiq Hariri, il bombardamento israeliano che nel 2007 pone fine alle ambizioni nucleari di Damasco – tutti fattori che avrebbero contribuito a generare una mentalità da assedio, convincendo Bashar che allentare la presa sul potere fosse troppo rischioso.
Quando le piazze arabe esplodono alla fine del 2010, in un primo momento Damasco sembra immune dalla rivolta. In Siria, tutto comincia con i fatti di Deraa nel marzo dell’anno successivo, quando alcuni liceali vengono imprigionati e malmenati per alcune scritte anti-governative: «Sarebbe bastato punire le autorità locali e sarebbe finita lì, invece Bashar si è impaurito e ha reagito con il pugno di ferro», dice Appiano. «Da quel momento ha sbagliato ogni singola mossa».
Il resto è storia – o, meglio, cronaca: mentre scrivo il confine tra repressione governativa è guerra civile si fa sempre più labile e, stando alle cifre delle Nazioni Unite, i cadaveri sono più di 7500, di cui circa mille appartenenti alle forze filo-governative. Il presidente ha provato a fare passare il messaggio di non essere lui il responsabile dei massacri. In un’intervista a Barbara Walters dell’Abc, sostiene di non avere mai dato né approvato l’ordine di sparare sui dissidenti e, con un distinguo iconico, dichiara: «È vero, la Siria è una dittatura, però io non sono un dittatore».
Una menzogna grottesca, eppure che forse contiene un briciolo di verità: «Bashar non controlla più il regime – sintetizza Van Dam – ma non è neppure un fantoccio dei generali. Vivono in simbiosi: loro hanno bisogno di lui e lui di loro». Sadiki, il commentatore di Al Jazeera, vede nel tiranno di Damasco l’artefice della sua stessa rovina: «Avrebbe avuto tutti i numeri per cambiare la Siria e possedeva l’intelligenza per farlo. Ma quando le cose hanno cominciato ad andare per il verso storto, non ha trovato il coraggio di sacrificare il clan, dimostrando non essere all’altezza del ruolo che gli era stato affidato». Alla fine, il figlio non prescelto del casato Assad, non ha saputo sfuggire al destino di famiglia.
Questo pezzo è tratto dal settimo numero di Rivista Studio, uscito nella primavera del 2012. Lo trovate sul nostro store, qui
Foto in copertina: Delil Souleiman, Afp via Getty Images