Arrivato a 8 anni distanza da Uomo Donna, il nuovo album del cantautore è ancora una volta e più che mai un capolavoro di bellezza e malinconia.
Questo è il primo articolo che pubblichiamo tratto dal nuovo numero di Rivista Studio, uscito oggi e intitolato La vita vera Istruzioni per l’uso. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
Le ombre sono quelle cose che assillano, che è molto probabile non ti abbandoneranno mai. Così come i pensieri intrusivi, quelli che caratterizzano ognuno di noi e che, seppur intimi, si intravedono quasi subito anche sui volti
degli sconosciuti che incroci per strada, anche senza sapere nulla di loro. Ci sono, sono presenti, proiettano una lunghissima ombra e Andrea Laszlo De Simone lo sa bene, conosce le proprie e su questo concetto ha costruito un corposo album – Una lunghissima ombra, appunto – uscito lo scorso 17 ottobre e che è accompagnato da un video di poco più di un’ora che racconta anche per immagini, o forse meglio dire per atmosfere, le 17 tracce che compongono questo suo terzo album. Andrea Laszlo De Simone ha da tempo deciso di fare musica e di limitarsi a “mandarla fuori” senza esporsi, tentando di eliminare il più possibile qualunque asimmetria tra lui e chi l’ascolta, spersonificandola e facendola apprezzare per quello che è e che può significare per chi l’apprezza. «Esattamente come quando ci sediamo su una poltrona comoda non ci chiediamo chi l’ha costruita e non lo rincorriamo per strada per ringraziarlo».
Incontrarlo in un certo senso spiazza, mette in discussione molte delle logiche monolitiche con cui quasi tutti facciamo i conti ogni giorno, dando ormai per scontati meccanismi che forse in realtà non lo sono. Parlarci apre naturalmente alla possibilità di mettere al centro del nostro tempo ciò che per noi è sano, le relazioni vere, un magnifico spazio privato dove costruire e ritrovarsi, anche con gli altri, dato che Andrea Laszlo De Simone sembra avere una forte fiducia nelle persone. Seppur per nulla immune dalle ombre, dai sensi di colpa e dai dubbi, lascia aperta la porta all’amore, salvifico e forse l’unica forza in grado di fugare il dolore insito nell’essere umano.
ⓢ Come sei arrivato a ideare e a chiudere Una lunghissima ombra?
Quando ho iniziato avevo dei sentimenti contrastanti, innanzitutto perché ho sempre molte perplessità su questo tipo di mestiere, che infatti non riesco a vedere come un mestiere. Era appena nata la mia secondogenita, c’era la pandemia, Immensità (l’Ep uscito nel 2019, nda) stava uscendo anche in Francia. Di base sono partito proprio dalla canzone che titola l’album e da qui ho iniziato a entrare nella metafora del processo di formazione delle ombre. Nel frattempo ho fatto due colonne sonore, delle altre uscite per cui è stato un lavoro un po’ frastagliato. Diciamo che ci ho lavorato per un annetto, ma in un lasso di tempo di quattro anni.
ⓢ C’è molta orchestralità, come ci hai abituato, ma anche un ritorno a una certa elettronica, alla psichedelia di Ecce Homo, il tuo primo disco autoprodotto. In che modo si collega questo ai lavori precedenti?
In effetti è un percorso a ritroso. Sono partito dalle esperienze più vicine a me, quindi dalle colonne sonore, e poi ho riattraversato un po’ le atmosfere di Immensità, quelle di Uomo donna per tornare a Ecce Homo. Mi sembrava che fosse coerente rispetto al concetto di ombra che il passato proiettasse la sua “lunghissima ombra” in avanti, su questo nuovo disco.
ⓢ Come nasce una tua canzone?
Inizio sempre da qualcosa che mi diverte fare, che mi fa stare bene. Elettronica, musica classica, per me il processo è sempre uguale: arrivo alla fine dell’arrangiamento e poi canto quello che la musica mi ha suggerito. Non metto molta razionalità né riesco a fare previsioni, ci metto le mani finché penso abbia senso, quando sento che è finito, non fino a quando è perfetto – tanto non può esserlo mai. Dal giorno dopo non mi rappresenta più.
ⓢ In che senso non ti rappresenta più?
È così, già dal giorno dopo inizio ad ascoltare le canzoni come se fossero di qualcun altro. Di base non faccio la musica che mi piace, non ne sarei neanche capace, se fosse così dovrei forse fare le cover di qualcuno. La cosa che mi interessa di più del fare musica è che mi devo accettare, mio malgrado. Esce fuori quello che sei, che ti piaccia o meno.
ⓢ Ti accetti dunque?
Sì, per questo è un processo per me molto prezioso. Non pretendo di fare qualcosa di bello, ma è un mio modo di sfogare, di elaborare, mi fa compagnia. Penso sia una cosa sana, un piacere privato, quasi come stare in bagno.
ⓢ Ascolti musica?
Non sono un grande ascoltatore. Forse perché l’ho approcciata quando ero troppo piccolo per considerarla una materia contemplativa; sono abituato all’idea che la musica si debba fare. Sarò un po’ egoista, non lo so, ma per me è come con i Lego: mi piace giocarci, ma non mi piace guardare qualcuno che ci gioca.

ⓢ Quindi non ascolti niente.
Non esageriamo, la mia compagna ama l’elettronica, mia madre ascolta tanta musica classica, ma non ho quel tipo di passione che mi fa archiviare le informazioni. Non conosco la storia della musica, non conosco neanche dove stanno le note, il mio è un approccio viscerale. Non è un vanto, mi piacerebbe avere quel tipo di cultura, solo che mi sono appassionato ad altre cose, mi piace più il calcio paradossalmente. Fa ridere, soprattutto quando mi descrivono come un intellettuale. Beh, non lo sono.
ⓢ Hai un disco preferito?
Sì, Kid A dei Radiohead, L’ha portato mia madre a casa quando avevo 14 anni, lo ha messo su e ho iniziato a piangere dopo dieci minuti, non avevo mai sentito niente del genere. Quello è un disco che so di aver ascoltato tanto, ma forse è solo arrivato nel momento giusto.
ⓢ E adesso non funziona più così?
Di base sono una spugna: la musica in un supermercato, un uccellino, io immagazzino tutto. È come se gli occhi mi servissero solo ad evitare gli ostacoli, credo di avere un approccio alla realtà molto uditivo.
ⓢ Se non facessi musica che cosa faresti?
Altre cose che mi piacciono, forse cucinerei o modellerei il legno. L’ho scoperto recentemente, però mi piace molto, abbiamo fatto anche dei mobili della nostra nuova casa.
ⓢ Quasi tutta la tua musica ha dei rimandi agli anni Sessanta e Settanta. Il cantautorato italiano, il prog, il rock alternativo; spesso ti si avvicina a Battisti, a Graziani, a Gaetano. Viene da pensare che tu sia un nostalgico. Lo sei?
Non lo so, non credo. Forse perché sono un empirico, non ho una particolare tecnica e quindi sono più spontaneo. Me lo sono chiesto un sacco di volte, magari deriva dai film.
ⓢ Anche per questo tuo iperrealismo nel comporre alcune tue canzoni sono state usate per la pubblicità e hai scritto due colonne sonore tra cui quella per il film francese Le Règne Animal, per cui hai vinto un Cèsar.
Credo di sì. I miei genitori sono grandi appassionati di cinema e da piccolissimo mi avevano già fatto vedere un sacco di film tipo Il Sorpasso, Ladri di biciclette, À bout de souffle. Mi hanno educato all’empatia e da bambino – quando è normale sentirsi al centro del mondo – ho imparato a piangere per qualcun altro, ad essere felice per qualcun altro.

ⓢ Adesso vedi molti film?
Sono molto più impegnato ora che sono genitore, per cui pochissimi, ma qualche mattina fa abbiamo visto Everything Everywhere All at Once, che ho trovato spettacolare per la destrezza di unire tantissimi registri diversi.
ⓢ Stavo ascoltando una canzone di Ecce Homo su YouTube e ho letto un commento che diceva «sono incerto se dire a tutti che esisti o tenerti segreto, per mantenerti autentico». Che mi sembra riassumere il paradosso della tua musica e anche dei tuoi fan, se possiamo chiamarli così. Sono molto rispettosi nonostante il tuo disco fosse molto atteso, i tuoi live anche se hai deciso di non farli più. Li hai educati forse.
Ho la mia privacy ed è bello sentirsi capiti. Detto ciò, io faccio musica e quello che succede dopo non mi riguarda, non mi deve riguardare, perché quello non è il mio lavoro, non voglio che sia la mia vita.
ⓢ Torneresti indietro? Pubblicheresti ancora Uomo Donna, il tuo primo disco uscito con una casa discografica?
Non lo volevo pubblicare perché non volevo far ascoltare il disco a sconosciuti. Come dicevo, non lo faccio per questo, anzi lo trovo un po’ intrusivo. Mi rendo conto che non si possono fare passi indietro, ma cercare direzioni più compatibili con quello che sei. Ho imparato a capire cosa pubblicare, a farlo meno, a non essere autobiografico.
ⓢ E se diventi famoso?
Lo vivrei male. Non in senso snobistico, è che sono lontanissimo da quelle dinamiche, mi metterebbero in una posizione scomodissima anche con i miei figli. Diventerebbero “i figli di”, e non me ne viene in mente uno che abbia passato una vita serena. Io sono un musicista di bottega, lì mi trovo a mio agio.
ⓢ Adesso però uno dei motivi che spinge tanti ragazzi a fare musica e non solo è proprio l’obiettivo di diventare famosi, in quanto riconoscibili e tanto basta.
Sì, e spesso costringe a identificare da subito un percorso preciso. Se c’è una cosa bella della musica, della creatività, è che puoi diventare qualsiasi cosa, cambiare strada. Mi deprime il fatto che un mestiere così ampio per molti possa decodificarsi in un modo soltanto. Ma poi è così bello essere famosi? Sei solo, non puoi fare quello che fa una persona normale, i rapporti che hai sono impari, piramidali. Lo trovo un po’ perverso.
ⓢ A proposito, di solito in prima media ai ragazzi si concede lo smartphone. Tuo figlio più grande ha 13 anni. Ce l’ha?
Non lo vuole e altri compagni di classe non ce l’hanno. Se lo vorrà lo lascerò libero di averlo.

ⓢ Hai detto in un’intervista che eviti di esporti anche per non continuare a peggiorare.
Esatto, non voglio. Quando è uscito il disco ho risposto a migliaia di messaggi perché non riesco a non farlo, mi sembra giusto. Io sono felice di interagire con gli altri, mi piacciono le persone. Non mi piace la massa, quando le persone diventano numeri e si diventa soli, autoreferenziali. Io ho fiducia nelle persone, è il mondo che mi fa paura.
ⓢ Siamo diventati tutti autoreferenziali?
Siamo costantemente educati a questo e con i social network la situazione è ulteriormente peggiorata. Quando sono nati i social network inizialmente l’idea era di ritrovare l’amico delle medie e il concetto di amico era ancora qualcosa di fortemente umano, adesso è completamente un’altra cosa, i follower servono a consolidare un sistema mentale di stampo aziendale che non ha nulla a che vedere con la vita, neanche con le buone intenzioni.
ⓢ Per esempio?
Per esempio, in questi mesi mi sarebbe piaciuto dire qualcosa sulla questione della Palestina, ma ci ho rinunciato sia perché non avevo le competenze per ergermi a paladino, sia perché significava posizionarmi, dare ulteriore forma al mio brand personale ed è una cosa che mi raccapriccia. Allora ho preferito farlo nella vita reale, andare in piazza come si faceva prima dei social e come si continua a fare, per fortuna. In fondo sono convinto che le persone insieme possano cambiare il mondo.
ⓢ Quindi le persone sono buone?
Oggi c’è un sistema estremamente complesso, dove ogni azione – lavorare, comprare un oggetto, avere un mutuo – può generare del male, e rende complesso emanciparsi da questo vortice, non provare infiniti sensi di colpa. In realtà secondo me tutti quanti ci svegliamo e fino a sera cerchiamo di essere delle bravissime persone, ci impegniamo. Mediamente le persone ci provano, ne sono abbastanza convinto.
ⓢ Esiste secondo te un’arte cattiva? Per esempio la trap, che a volte si porta come esempio di musica che insegna valori negativi, che veicola messaggi violenti.
Non credo che sia necessariamente il ruolo dell’arte diffondere bellezza e positività, non è una pubblicità progresso. Per me la musica è uno spazio di estrema libertà e non priverei nessuno del lusso di non sentirsi vincolati nell’espressione creativa. Quello che accade in una canzone, su una tela, non ha responsabilità.
ⓢ Tutto quello che dici mostra un’apertura al dubbio, alla sua accettazione. De Gregori canta in “Santa Lucia” «Per le persone facili che non hanno dubbi mai». Quanto i tuoi pensieri intrusivi, il dubbio sono positivi?
Il dubbio, le domande irrisolte per me sono il fondamento. Sono quella crepa che permette a tutti di esistere, che permette ai pensieri degli altri di esistere, di entrare in noi e quindi così possiamo dare senso all’altro. Sono spaventato dai dogmi, ovunque ci sia una certezza c’è un’ottusità profonda. Io non voglio la soluzione, voglio essere ricoperto dalle domande perché mi motivano, mi danno qualcosa da cercare. È molto sano.
ⓢ Quali sono le tue lunghissime ombre?
Quelle di tutti, credo. Nel disco ho voluto raccontarne soprattutto le proporzioni, lo spazio. Non esiste mai l’oggetto, non c’è mai la causa, ci sono dei movimenti, ed è anche la caratteristica nei pensieri intrusivi, quella di essere poco formalizzati, ma al tempo stesso fondativi di quella che è la nostra personalità, del nostro lato più intimo, delle nostre paure, dei nostri umori e dunque di come interagiamo col mondo. Ed è lì che proiettiamo l’ombra, che rendiamo tutto questo privato visibile all’esterno.
ⓢ Quando i bambini hanno paura del buio o delle ombre li si fa dormire con una luce accesa. Qual è la tua luce accesa?
In realtà sono pieno di luci. Lo spazio privato in cui faccio musica, in cui l’animale umano può essere del tutto completo, senza ipocrisie e sensi di colpa. Poi vabbè, è facile, sono padre di due figli.
