All’s Fair centra lo 0 per cento su Rotten Tomatoes, in tutte le recensioni si usano parole come terribile e catastrofe.
Il 9 dicembre si è arrivati ai titoli di coda della prima stagione di All’s Fair, l’ultimo legal drama firmato Ryan Murphy, e con lo stomaco ancora pieno di farfalle e cattivo gusto si capisce finalmente quanto la furia critica delle ultime settimane abbia mancato il bersaglio. C’è chi l’ha definita una «catastrofe estetica», chi parla di «un tripudio di volgarità», chi addirittura la indica come prova definitiva del declino morale di Murphy. Ma questa indignazione, più che rivelare i limiti della serie, rivela quelli di chi la giudica. All’s Fair è un’opera volutamente scomposta, volutamente troppo, che rifiuta l’idea che valore significhi per forza misura, pulizia o correttezza narrativa. È pensata per straripare, e lo fa con una certa coerenza.
Il vero errore di lettura nasce qui: All’s Fair non appartiene al prestigioso cerchio dei prestige drama, eleganti, “ben fatti”, appartiene a un’altra tradizione, quella del kitsch televisivo che che si nutre di sfarzo e storture, di frasi memorabili per le ragioni sbagliate, di estetiche che si ridicolizzano fino a sfiorare con il grottesco. Ed è qui che Murphy ha sempre eccelso, nel prendere la “low culture” – o ciò che viene etichettato come tale da sigilli di intellettuali – e prenderla sul serio, con una serietà così estrema da diventare comica, da fare il giro e diventare erroneamente politica rimanendo profondamente pop. In un panorama televisivo e cinematografico ossessionato dalla compostezza, Murphy riporta al centro il raunch, lo scomposto, l’eccessivo come atto sovversivo.
Umano non umano
La serie è stata definita dalla critica come «femminismo pulp», «girlboss nonsense», e ciliegina sulla torta, «un’orgia di cattivo gusto». In poche parole, tutto ciò a cui aspirava. Non è quindi interpretabile come un fallimento autoriale, ma è la conferma che Murphy ha colpito nel segno ancora una volta. Le protagoniste sembrano uscire da un diorama opulento e inquietante, un plastico umano in cui la ricchezza è sia ornamentale sia mostruosa. Non si capisce se Murphy ami o detesti queste donne, forse non lo sa neanche lui, o forse non se lo chiede nemmeno, e va bene così. In fondo il suo sguardo non è psicologico ma coreografico, non interessa il perché, interessa il come: come brillano, come crollano, come si deformano sotto il peso delle aspettative, dei soldi, del desiderio.
Le eroine di Murphy (Sarah Paulson, Kim Kardashian, Glenn Close, Naomi Watts, Niecy Nash, Teyana Taylor, Judith Light) sono bambole disegnate con un furore anatomico, pompate, tirate, levigate, “snatched for the gods”, con punti vita così stretti da far impallidire le Winx. Si muovono come creature ibride, metà donna metà scultura, con abiti tanto costosi quanto oggettivamente brutti, cappellini con piume e velette, guanti di pelle simil-umana, completi con tanga esposti indossati in un normale lunedì d’ufficio. C’è un sottotesto di body horror cosmetico che attraversa ogni episodio. Botox come linguaggio di espressioni mancate, filler come punteggiatura su facce di pietra, cellule staminali frullate e iniettate in ogni dove. Murphy porta queste figure al limite, le usa come superfici narrative, come strutture architettoniche che devono sostenere il peso del proprio stesso eccesso. Quanto può sopportare un corpo? Quante trasformazioni può accumulare prima di diventare una parodia di sé stesso? In All’s Fair queste domande non vengono mai esplicitate, ma sottendono a ogni gesto.
E il luogo perfetto per osservare questi esemplari da catalogo è il tribunale dei divorzi di osceni miliardari (ogni tanto bisogna pure ricordarsi che la serie parla di questo), dove ogni lite coniugale diventa un’operazione di spettacolo, ogni udienza uno still che cattura l’eccesso americano, dove non c’è analisi, non c’è verità interiore, c’è solamente lo spettacolo della superficie.
L’egemonia di Kim Kardashian
Ed è proprio in questo teatro di silhouette tirate a lucido che l’ingresso in scena di Kim Kardashian assume un senso più profondo, quasi inevitabile. Kim è l’incarnazione più estrema del sogno – o incubo – del suo autore, musa ispiratrice di immaginari alieni. Il suo corpo, costruito e decostruito davanti agli occhi del mondo per quindici anni, è il vero punto di congiunzione tra la fantasia estetica di Murphy e la realtà pop americana. È il corpo-laboratorio, il corpo-brand, il corpo su cui si proiettano desideri, disgusti, moralismi e aspirazioni.
Eppure la sua presenza ha portato la serie a cadere nel precipizio del troppo, del non accettabile, rivelando una rigidità culturale stanca, quasi burocratica. Come se esistesse un elenco ufficiale di chi è degno di abitare la televisione e di chi invece deve restarne fuori per preservare il buon gusto. L’avversione verso Kim è moralistica, più che estetica. Ma Kim, la più grande creatura pop del ventunesimo secolo, è esattamente ciò che questa serie richiede, una figura che non simula l’eccesso, ma lo incarna per davvero.
Con l’aiuto della stylist Soki Mak, Kim Kardashian costruisce per All’s Fair un arsenale estetico che non è moda, ma iconografia, citazioni d’archivio, rimandi alla couture più teatrale, micro-riproduzioni di momenti cult della storia del fashion. Tra un frame e l’altro si passa da simil grembiuli da hostess anni ’50, a tailleur da villain di soap opera, ad abiti-scultura che sembrano rubati dal Met. Tutto esagerato, tutto volgare, tutto troppo, non c’è un senso narrativo, c’è soltanto un’orgia visiva massimalista. È divertimento allo stato puro, un gioco sull’idea stessa di cosa significhi essere “alla moda”. In qualunque altro contesto verrebbe celebrata come iconoclasta, dirompente.
Il trash siamo noi
E la serie stessa sembra divertirsi ad oscillare sul confine dell’assurdo: dialoghi che paiono scritti per diventare meme, scene di sesso così goffe da sembrare coreografie impacciate, personaggi che parlano come se stessero doppiando la parodia di un’altra serie. Tutto è calibrato su un registro di eccesso che non cerca la credibilità ma la memorabilità. C’è un piacere strano e irresistibile nello scorrere degli episodi, una miscela di soddisfazione e imbarazzo, una cringeness che provoca assuefazione.
Forse, allora, la domanda giusta non è se All’s Fair sia davvero così terribile. La domanda è: e se ci trovassimo davanti al prossimo Showgirls senza averlo ancora capito? Se questo miscuglio di indignazione, moralismi, scandali e disgusto estetico non fosse altro che il terreno fertile in cui germogliano un cult? La storia, del resto, è ciclica, il capolavoro di Verhoeven fu accolto come uno dei peggiori film mai girati, per poi trasformarsi anni dopo in un pilastro del camp contemporaneo. E All’s Fair possiede tutte le caratteristiche dei cult accidentali: budget stellari, tono disallineato, ambizione fuori controllo, ricezione ostile, una certa ferocia nell’esporsi per ciò che è. Nulla genera culto come il fallimento, e nulla rivela la nostra ipocrisia come il fastidio verso un oggetto che osa essere brutto con convinzione. E forse un giorno rideremo dell’imbarazzo con cui lo abbiamo guardato, chiedendoci come abbiamo fatto a non riconoscere, sotto il disprezzo collettivo, il suo germe luminoso.
In fondo la furia critica verso la serie — e verso Kim in particolare — nasce da una cosa semplice: All’s Fair nel suo splendore appiccicoso, volgare, divertentissimo, ci mette davanti a ciò che preferiamo ignorare. Che la società in cui viviamo è caotica, inelegante, esagerata, più interessata alla contaminazione che al buon gusto. Che il melodramma patinato è parte della nostra dieta visiva tanto quanto i film autoriali, e che Kim non è il problema della serie, il problema semmai è il nostro desiderio di una televisione che non ci metta mai davanti allo specchio. Siamo tutti attratti dal trash, ma ancora ci vergogniamo di ammetterlo. Ma Ryan Murphy non si vergogna, e questa, forse, è la sua colpa imperdonabile.
