Il linguaggio perduto degli aerei

Cosa proviamo guardando i cieli vuoti.

15 Aprile 2020

I pomeriggi sono cullati dal chiacchiericcio di uccelli invisibili, nascosti tra gli alberi o sopra i tetti, in questa primavera di quarantena, e i rumori tipicamente cittadini si sono fatti più rari e distinguibili. Quello che segnerà per anni, e forse per sempre, la nostra memoria uditiva è quello delle sirene delle ambulanze, urgenti e quotidiane. Per qualcuno ci può essere un tram che fa tremare i vetri, un colpo di clacson qui e là, poco o nient’altro. La notte, solo le luci di appartamenti vicini e dei pochi grattacieli disponibili all’orizzonte. Capita tuttavia, a volte, di essere sorpresi da un rombo che si annuncia da lontano, e avvicinandosi avvolge ogni altro suono, o silenzio. È raro, e sembra arrivare da un’altra epoca: il passaggio di un aereo. 

La mia quarantena è iniziata il 9 marzo, in ritardo di quasi 48 ore sull’istituzione della zona rossa lombarda, atterrando con uno degli ultimi aerei in un aeroporto spettrale, attraversato in fretta e silenzio. Le porte scorrevoli del terminal si sono chiuse dietro di me come un portale o un’epoca, mentre aprivo la porta del taxi ricordandomi di spalmarmi per l’ennesima volta il disinfettante sulle mani. Quando, seduto sul balcone a cercare di prendere un po’ di sole di questa primavera definitivamente – prima o poi parleremo anche di questo – subsahariana, avverto avvicinarsi il boato sommesso di un aeroplano, la tentazione è quella di cercarlo con gli occhi: che tipo di aereo è, mi chiedo, e cosa sta trasportando, o chi. Da dove viene, e dove va. Che fortuna deve avere, penso anche, per poter volare ancora. Stupidamente, mi è capitato di considerare la possibilità di un volo di piacere trasgressivo, un decollo effettuato di nascosto dalle circolari governative.

La diminuzione di voli nel mondo, nei mesi di marzo e aprile, ha in certi luoghi – soprattutto l’Europa – sfiorato il 90 per cento. Il confronto tra il prima e l’adesso delle mappe del traffico aereo, come Flightradar24, è drammatico: della massa di apparecchietti gialli che occupava disordinatamente l’intero profilo dell’Europa non è rimasto niente, solo una decina di icone che colpiscono per la loro solitudine. Su queste mappe, incuriosito, faccio un gioco spinto dalla noia: clicco sulla sagoma degli aerei, visualizzo le informazioni del viaggio, a volte, su Google Immagini, cerco il modello. Se sono vettori che non conosco, cerco informazioni anche su quelli. Vorrei capire chi sono questi pochi privilegiati con il diritto di volare, voglio sapere tutto sul perché si trovano ancora in aria, mosso da curiosità e da invidia per la loro libertà. Immagino la sensazione dei piloti nell’osservare il radar vuoto: saranno malinconici? Si sentiranno soli, come al comando di una barca a vela nell’oceano?

Mentre scrivo, un cargo di Qatar Airways proveniente da Doha e diretto a Liegi passa sopra Taranto, un altro cargo di Turkish diretto a Lagos, da Istanbul, sta attraversando il cielo di Siracusa, mentre sulla Lombardia nemmeno un’iconcina, neanche quelle piccole dei jet privati, di un Gulfstream di contrabbando. Solo, sorvolando la foce del Po, e diretto verso l’Adriatico meridionale, un altro cargo di Saudi, che da Maastricht naviga verso Jeddah. Alcuni aerei passeggeri, soprattutto compagnie di bandiera di stati riluttanti ad atterrare l’intera flotta, continuano a volare, ma sono vascelli fantasma con pochi o nessun passeggero. Chi abbia volato anche solo in un aeroplano a metà della sua capienza massima, magari in un giorno feriale di un mese non di punta su una tratta poco battuta, può ricordare lo straniamento di quelle decine di sedili vuoti, la quasi imbarazzante vastità della scelta sul dove trascorrere le ore di volo in quasi solitudine, la sensazione che l’aereo sia più leggero, forse troppo, del solito.

Gli aerei, trasformati negli anni Dieci in simboli del cambiamento climatico, capri espiatori facili da individuare e ancora più facili da additare, non sono riusciti però a perdere, a osservarli mentre si lanciano sulla pista per poi puntare il muso verso l’alto, e staccarsi da terra, l’affascinante aura magica – magia della scienza, magia della fisica – del progresso e delle possibilità.

La vuotezza degli aeroporti è invece oggi la rappresentazione forse più eloquente di quanto la pandemia abbia colpito a fondo lo stile di vita, l’economia, i simboli del mondo globalizzato, nessuno escluso. Le livecam degli aeroporti europei che trovo su internet – Zurigo, Amburgo, Monaco, Praga – mostrano le piste come fiumi vuoti, così vaste da sembrare già destinate a un futuro di abbandono, e le schiere di apparecchi parcheggiati ordinatamente uno a fianco all’altro, come le berline metallizzate nei drive-in dei film americani. 

Sono belle, nella loro malinconia, anche le fotografie che arrivano dai terminal vuoti, i nastri per i bagagli immobili, le armate di caffetterie in franchising chiuse, i banchi dei check-in disertati. Superata la definizione di non-luoghi, gli aeroporti  prendono le sembianze di templi in rovina.

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