Le città di pianura, una lettera di amore e odio per il Veneto e l’Italia profonda

Il film di Francesco Sossai, presentato a Cannes e appena arrivato in sala, si muove lontanissimo dal tracciato del cinema italiano contemporaneo: di questo, di Veneto e di serate alcoliche abbiamo parlato con lui.

02 Ottobre 2025

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Un’ostrica ha tradito Francesco Sossai, causandogli un’intossicazione alimentare al rientro dalla Costa Azzurra. Gli dico che forse è una vendetta del cocktail di gamberi al centro di una delle scene più caustiche di Le città di pianura, il suo secondo lungometraggio presentato nella sezione Un Certain Regard dell’ultimo Festival di Cannes. Lui mi conferma che la vendetta dei molluschi ha suscitato molta ilarità anche tra i suoi amici. Bellunese, classe 1989, Sossai è stato salutato dalla critica nostrana come il regista italiano più interessante in Croisette, nonostante (o forse proprio perché) Le città di pianura si muova lontanissimo dal tracciato del cinema italiano contemporaneo. Il film riflette l’identità di un autore allergico alle convenzioni, un autore per il quale il racconto del proprio territorio è legato a un rapporto critico, ma irrinunciabile, con le proprie radici.

ⓢ Intossicazione a parte, qual è il bilancio della presenza in Croisette? Dà davvero un vantaggio strategico passare in un festival del genere?
Ancora non lo so, ma immagino che avere nel curriculum due passaggi a Cannes mi aiuterà a trovare finanziatori più facilmente.

ⓢ Hai già aggiornato LinkedIn?
Esatto [ride, nda]. Le città di pianura non è proprio convenzionale, nel senso, non è il tipo di film che si fa in Italia adesso, quindi sono contento che il Festival mi abbia voluto: in un certo senso questa selezione mi ha dato ragione.

ⓢ Il tuo film è una mosca bianca, un po’ fuori dai giri italiani, sia geografici che tematici. Ti ha reso la vita difficile essere così controcorrente?
Ho avuto la fortuna e la sfortuna di aver già girato un lungometraggio intitolato Altri cannibali. Da una parte mi ha penalizzato, perché quel film non è stato capito, non è mai uscito nelle sale, ha girato solo nei festival. Dall’altra in Italia per fare un film devi aver già fatto un film. Nel mondo del lavoro italiano devi avere esperienza per fare esperienza. Il mio esordio ha tranquillizzato tutti i miei produttori sul fatto che ero capace di raccontare nella forma lunga. 

Le città di pianura però è più ambizioso di Altri cannibali.
Nel mio primo film c’era una premessa forte: due uomini s’incontrano perché uno vuole provare a mangiare la carne umana e l’altro non vuole più vivere e decide di farsi sbranare. Qui non c’è neanche più quella. Il film è tutto sulla ricerca dell’ultimo drink per chiudere la serata.

ⓢ Da dove è nata l’idea “alcolica” di Le città di pianura?
Da una serata a Venezia dove io e un amico abbiamo conosciuto Giulio, un giovane studente di architettura dello IUAV. Di quel bell’incontro mi colpì come eravamo tutti e tre un po’ persi. Inoltre ho sempre voluto fare un film sul paesaggio, per aggiornare gli studi paesaggistici degli anni Ottanta: gli scatti e gli scritti di Gianni Celati, Luigi Ghirri e Guido Guidi, ancora il Viaggio in Italia di Guido Ceronetti e di Guido Piovene. Mi interessava provare a fare un film sui paesaggi dell’oggi, senza pregiudizi. 

ⓢ È una sceneggiatura figlia del tuo vissuto veneto, quindi.
Per anni me ne sono andato in giro annotando quello che sentivo nei bar, sui mezzi pubblici, nelle piazze. Con Adriano Candiago [co-sceneggiatore di Le città di pianura, nda] ho messo insieme quel materiale e abbiamo cominciato a comporre un viaggio. 

ⓢ Sul set com’è andata? Sei uno che lascia spazio all’improvvisazione?
I dialoghi sono filmati con una fedeltà del 100 per cento. Lo pretendo dagli attori, non c’è improvvisazione di nessun tipo. Io invece non faccio storyboard, non preparo niente. Arrivo sul set e cerco di restituire una freschezza di sguardo. Filmo esattamente tutto quello che ho scritto, ma sono molto libero a livello visivo. 

ⓢ Parlando d’immagini, il film è girato in pellicola, con la grana evidente, i colori vividi… Non sembra appartenere all’epoca del digitale.
È un grande equivoco del presente pensare che il digitale sia l’immagine della nostra epoca. Diceva Giorgio Agamben che è contemporaneo solo chi non lo è, perché l’unico modo per esserlo è fare due passi di lato e guardare la vera luce della nostra epoca. Io non cerco di rincorrere il presente, di fare film che sembrino delle storie di Instagram, capisci? Il personaggio di Giulio però è nella bolla social, digitale. Nel film viene buttato nella vita vera, per un attimo vive la vita senza la bolla.

ⓢ Come sei arrivato a Filippo Scotti per Giulio? Da Sorrentino in poi incarna una certa idea di coming of age, nel cinema italiano.
Filippo ha questa grande capacità d’ascolto e di empatia che per me è importantissima. Quando l’ho conosciuto gli ho regalato Sillabari di Goffredo Parise. Mi ha chiamato dopo un po’ di giorni dopo per dirmi che aveva letto il racconto “Altri” e che lo aveva commosso. Lì ho pensato che fosse l’attore giusto per questo film. Come interprete poi incarna un certo immaginario che però a me interessava sovvertire: mi piaceva l’idea di stravolgerlo, anche nel look. 

ⓢ Dopo questo e Altri cannibali, verrai inevitabilmente etichettato come “il regista che racconta il Veneto”. Ti piace come etichetta o ti sta stretta? 
Va benissimo. Me la son voluta, anche perché non girerò mai un film altrove. Non potrei. Non so come spiegarlo. Non che i miei lavori siano identitari, ma è proprio… C’è una condanna al Veneto.

ⓢ Una condanna?
Una condanna a vita al fatto di rimaner là, un ergastolo. Il Veneto è l’unica realtà che conosco. A me interessa raccontare lo spaesamento che provoca viverci. Lo sogno anche, sai? Tutti i miei sogni sono ambientati lì. Leggo Thomas Bernhard e non lo ambiento in Austria ma vicino al mio paese, leggo Stephen King e il Maine diventa il Veneto.

ⓢ Però non sei mai tenero nei confronti dei tuoi compaesani.
Quello che è successo dopo il 2008 è che tutti viviamo quasi come delle comparse in queste vecchie città venete, nei quartieri residenziali, nelle zone industriali. Non abbiamo più una relazione con la terra, siamo tutti accampati. È quello di cui parla Le città di pianura, di questo sconoscimento dei luoghi.

ⓢ In una scena i protagonisti dicono che negli anni Novanta stavano da Dio, stando sotto questo enorme cavalcavia che gli fa salire la nostalgia ma non è proprio… Bello. 
Quel viadotto è stato costruito nel 1994 e collega la Val Lapisina da Pian di Vedoia Longarone fino a Vittorio Veneto. È un’infrastruttura enorme che è il simbolo di un’idea che proprio non esiste più. 

ⓢ Di quel periodo nel film c’è anche una certa mitologia dell’imprenditore veneto.
È difficile fare un film sul Veneto senza mettercela. L’imprenditore è una figura chiave, il simbolo di una piccola-media impresa diventata grande.

ⓢ Questo mito è morto nel 2008 insieme ad altre certezze?
No. Resiste, anche se alcuni di questi sono morti o sono in declino, senza far nomi…

ⓢ Dato che i protagonisti rubacchiano dalla fabbrica di occhialeria in cui lavorano, non è difficilissimo capire a chi ti riferisci, no?
No, certo. C’è il fantasma di quel mito che continua, quello di un modo di vivere che resiste, anche se è senza futuro. 

ⓢ Che mi dici della scena ambientata nel locale dove si balla musica country agghindati da cowboy? Sembri quasi dare ragione a chi dice che il Veneto è il Texas d’Italia.
Semmai è il Texas che è il Veneto degli Stati Uniti. Non per avere proprio ora un momento identitario [ride, nda], ma la Serenissima Repubblica di San Marco c’è da mille e passa anni, mentre il Texas da… Duecento?

ⓢ Dopo così tante domande il momento identitario ci sta. 
Gli Stati Uniti sono nel film perché il problema paesaggistico che racconto è importato, ereditato dal piano Marshall. Da allora ci siamo assuefatti a questa americanizzazione del vivere, del costruire.

ⓢ E invece cos’hai contro Rovigo? 
Quel folgorante «Rovigo non esiste» l’ho sentito dire in un bar e ho pensato che dovevo metterlo nel film. Questo però è un altro equivoco della nostra epoca: pensare che un autore parli attraverso i suoi personaggi.

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