Al di là degli schieramenti, che non sono mai sembrati così polarizzati e incapaci di comunicare tra loro, quello che resta interessante da chiedersi è cosa vogliamo oggi dagli abiti, e questa settimana di sfilate ce l'ha dimostrato.
Questo articolo è tratto dal nuovo numero di Rivista Studio, dedicato al Nuovo cinema italiano. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
Il rapporto tra moda e cinema non è mai stato un semplice gioco di rimandi estetici. Da quando, quasi un secolo fa, i grandi couturier iniziarono a prestare il proprio immaginario alle dive di Hollywood o alle attrici del cinema europeo, la relazione ha oscillato tra fascinazione reciproca e appropriazione. Per decenni lo stilista è stato soprattutto un alleato creativo: basti pensare a Giorgio Armani e al sodalizio che ebbe con Hollywood a partire da American Gigolo, quando il completo maschile divenne icona culturale oltre che abito. O a Paco Rabanne che con i suoi costumi per Barbarella inaugurò la lunga stagione della moda space age, culminata con Le cinquième élément (1997), per il quale Jean Paul Gaultier portò sullo schermo la stessa energia visionaria delle sue sfilate. In questi casi la moda non si limitava a vestire i personaggi, ma contribuiva a definirne il carattere, a dare forma al linguaggio visivo del film e a fissarsi nell’immaginario collettivo come simbolo di un’epoca.
Da Sex and the City alle biografie
Quella stagione si basava sul fascino creativo e sul dialogo tra registi e maison. A cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, la relazione ha iniziato a farsi più strategica: il cinema è diventato il luogo ideale per un marketing meno dichiarato, capace di trasformare abiti e accessori in oggetti di culto. Sex and the City ha inaugurato un’era: la Fendi Baguette, i sandali Manolo Blahnik e le borse Dior hanno smesso di essere semplici accessori scenici per diventare protagonisti di un desiderio globale. Da quel momento lo spettatore non si limitava a sognare un abito, ma voleva possederlo. Ogni episodio della serie si trasformava in una vetrina che consolidava l’identità dei brand coinvolti. È qui che si normalizza un approccio prêt-à-porter in cui ogni dettaglio di costume appare come un prodotto immediatamente commerciabile.
Negli ultimi anni, però, il quadro è cambiato ancora. Da una parte sono proliferati film e serie che hanno la moda, o meglio la vita dei suoi protagonisti, come soggetto: biografie e docuserie su Dior, Balenciaga, Lagerfeld, Chanel e Halston. Un fenomeno che risponde a due attese: soddisfare la curiosità del pubblico, attratto dai retroscena del lusso, e rafforzare la percezione dei marchi come protagonisti culturali oltre che commerciali. Con poche eccezioni, si tratta di prodotti che insistono più sulla drammatizzazione biografica che sull’approfondimento delle dimensioni autoriali.
Il caso Guadagnino
Parallelamente, il cinema di finzione ha spinto il product placement a un livello di sofisticazione nuovo. Non più semplice comparsa, ma parte integrante della struttura narrativa. Emblematico il caso della T-shirt Loewe con la scritta I Told Ya indossata da Zendaya in Challengers di Luca Guadagnino: un dettaglio diventato virale e oggetto del desiderio, fino a ridursi a un fenomeno passeggero. Guadagnino, con la complicità di Jonathan Anderson, allora direttore creativo di Loewe, ha usato quel segno come strumento di comunicazione, capace di generare attesa e consumo prima ancora dell’uscita in sala. Da questa collaborazione è nato un sodalizio: Anderson ha firmato i costumi di Queer e lo stesso Guadagnino, per presentare After the Hunt a Venezia, ha indossato una T-shirt Dior Men by JW Anderson con la scritta No Dior, no Dietrich, citazione della frase pronunciata da Marlene Dietrich a Hitchcock nel 1950 prima di Stage Fright. L’attrice pretese allora di essere vestita solo da Dior, mostrando quanto moda e cinema potessero intrecciarsi in modo strutturale.
Il cinema di Guadagnino è emblematico di un’esperienza espansa che fonde moda, generi cinematografici, citazionismo, design e interior. Ossessioni condivise oggi da designer come Matthew Blazy o lo stesso Anderson, e che Guadagnino, titolare anche di uno studio di architettura, integra nelle sue opere non come decorazione ma come parte della scena. Anche la relazione tra cinema, moda e design non è nuova: Karl Lagerfeld ricordava spesso l’impatto di L’Inhumaine (1924) di Marcel L’Herbier, con scenografie di Robert Mallet-Stevens e costumi di Paul Poiret. In quel caso, come nelle sperimentazioni di Kenneth Anger, si trattava di una tensione artistica verso l’opera d’arte totale. Oggi, invece, la fusione tra estetica e narrazione assume obiettivi anche economici: la moda non si accontenta più di essere partner esterno, ma diventa protagonista dell’industria cinematografica.
Entrare dalla porta principale
Due casi recenti lo dimostrano: Saint Laurent e Prada. Con Saint Laurent Productions, Anthony Vaccarello ha creato la prima casa di moda dotata di una divisione interamente dedicata alla produzione di film. Non un’operazione occasionale, ma una scelta strategica che segna un cambio di paradigma: la moda non solo veste il cinema, lo produce. Dopo l’esordio nel 2019 con The Arrangement di Bret Easton Ellis e Lux Æterna di Gaspar Noé, Saint Laurent ha continuato con documentari come Sportin’ Life di Abel Ferrara e il postumo Trailer of the Film That Will Never Exist: Phony Wars di Jean-Luc Godard. Nel 2023 è arrivato a Cannes con il corto di Pedro Almodóvar Strange Way of Life, e l’anno successivo con tre lungometraggi in concorso: Emilia Perez di Jacques Audiard, Parthenope di Paolo Sorrentino e The Shrouds di David Cronenberg. Lo scorso settembre, a Venezia, la prima volta in concorso con Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch, interpretato da Cate Blanchett, Adam Driver e Charlotte Rampling che si è aggiudicato nientemeno che il Leone d’oro; un traguardo non da poco per un brand di moda diventato produttore cinematografico. Non si tratta più di sponsorizzare o di curare i costumi, ma di partecipare a pieno titolo a progetti autoriali, al fianco di produttori indipendenti e piattaforme come MUBI. Vaccarello, che ha sempre costruito le collezioni Saint Laurent su un’estetica intrisa di riferimenti cinematografici, ha esteso la coerenza del marchio fino al grande schermo.
Anche Prada ha scelto un impegno strutturale. Nel maggio 2025 la Fondazione Prada ha annunciato il Fondazione Prada Film Fund, un fondo annuale da un milione e mezzo di euro destinato a sostenere il cinema indipendente internazionale. Ogni anno una giuria selezionerà dieci-dodici lungometraggi senza restrizioni di genere o provenienza, valutandoli solo per qualità, originalità e visione. «Il cinema è per noi un laboratorio di idee e uno strumento di formazione culturale», ha dichiarato Miuccia Prada, chiarendo che non si tratta di singoli eventi di visibilità, ma di un investimento nella vitalità del linguaggio cinematografico. La Fondazione ha alle spalle vent’anni di attività nel cinema: dal restauro di pellicole dimenticate presentate a Venezia alle rassegne curate con Quentin Tarantino e Joe Dante, fino a mostre immersive come Carne y arena di Alejandro González Iñárritu e alla collaborazione con Jean-Luc Godard. Il fondo rappresenta quindi la prosecuzione di una ricerca che considera il cinema un linguaggio in dialogo con arte, architettura, filosofia e moda. Nel solco di questa convergenza rientra anche l’ultimo Prada Gallery Bag, corto firmato da Yorgos Lanthimos con Scarlett Johansson, esempio di come un oggetto possa farsi motore drammaturgico in pochi minuti: trasformando il product placement in racconto, a conferma di una continuità autoriale che Prada coltiva ben oltre l’alveo del proprio Film Fund.
Rispetto al passato, la differenza è evidente. Se Armani o Gaultier entravano nel cinema come costumisti, e se Sex and the City o Emily in Paris trasformavano gli abiti in fenomeni di consumo, oggi Prada e Saint Laurent entrano dalla porta principale: finanziamento, programmazione culturale, produzione. Il cinema non è più solo un mezzo per promuovere un prodotto, ma un territorio in cui produrre significati, alimentare il capitale simbolico del marchio, costruire un’eredità culturale. Il ritorno non si misura più solo in vendite, ma in prestigio, presenza nei festival, partecipazione a un immaginario che dura oltre una stagione.
Un rapporto di dipendenza reciproca
Un esempio arriva dal recentissimo debutto di Demna da Gucci, collezione anticipata con The Tiger di Spike Jonze: oltre trenta minuti e un cast hollywoodiano. Vale la pena notare che Demi Moore e Margaret Qualley, co-star del già cult The Substance, appartengono a questa stessa genealogia; Qualley era la protagonista del KENZO World di Jonze nel 2016. Oggi il regista orchestra un gioco di rimandi e manierismi, tra citazioni e icone vecchie e nuove, che mette a fuoco una cosa sola: la dipendenza reciproca di cinema e moda, l’una bisognosa di nuove risorse narrative e simboliche, l’altra di durata, aura e racconto oltre la stagione. Tutto questo avviene in un momento in cui i consumatori sono saturi di pubblicità tradizionale e cercano forme di coinvolgimento più profonde. Un film resta nella memoria più a lungo di uno spot o di un post. La moda, che vive di immaginario, ha riconosciuto nel cinema uno strumento di durata e risonanza. Il cinema, dal canto suo, trova in queste alleanze nuove risorse, soprattutto in un periodo in cui la produzione indipendente fatica a sostenersi.
Il risultato è una convergenza inedita: la moda produce cinema per rafforzare la propria rilevanza culturale, e il cinema accoglie la moda come partner strutturale, non più come sponsor. Da una parte Prada, che istituzionalizza il sostegno al cinema d’autore con un fondo internazionale; dall’altra Saint Laurent, che porta in concorso a festival film di registi come Jarmusch o Cronenberg. In mezzo figure come Anderson, che con Guadagnino sperimenta il potere narrativo del costume, o casi come Barbie e La stanza accanto che mostrano come i brand possano diventare coprotagonisti delle trame.
La questione, allora, non è più se la moda abbia interesse per il cinema, ma come questa alleanza possa mantenere un equilibrio tra marketing e cultura, tra ritorno economico e ricerca artistica. Per ora si tratta di un arricchimento reciproco: la moda ottiene legittimità culturale, il cinema nuove energie. Per lo spettatore significa esperienze più dense, in cui l’abito non è solo costume e il marchio non è solo logo, ma parte integrante della narrazione. Ed è qui che si gioca la posta vera: se queste nuove alleanze riusciranno a lasciare opere capaci di durare, al di là delle mode e delle strategie di comunicazione.