I libri del mese

Cosa abbiamo letto a settembre in redazione.

di Studio
30 Settembre 2025

Honor Levy, Il mio primo libro (Mercurio)
Traduzione di Chiara Manfrinato
«Cos’è la voce di una generazione? È la voce più controversa? La prima persona che scrive nel modo in cui poi scrivono tutti? Quella che la maggior parte delle persone odia o ama?» chiedeva Honor Levy a Brock Colyar del New York Mag l’anno scorso, in un articolo che parlava del suo primo libro, Il mio primo libro, ora arrivato anche in italiano nella traduzione di Chiara Manfrinato. Endorsata da Bret Easton Ellis come “la voce della nuova letteratura”, nata a Los Angeles nel 1997, Honor Levy è stata una delle principessine dell’ormai appassita scena anti-woke di Dimes Square, attualmente attiva su Instagram con 7 account ossessivamente progettati e curati per risultare artistici e geniali (per esplorarli tutti si parte da qui). La ricetta è la seguente: faccino da angelo + meme sfrenati + estetiche internet 1.0 e Y2K (guardate la copertina originale del libro) ma anche esperimenti con l’AI + affermazioni volutamente “controverse” e politicamente scorrette. Il risultato è una una micro-celebrity facile da detestare. Tocca ammettere, però, che la ragazza sa scrivere, e che questo libro disseminato di intuizioni effettivamente geniali è la risposta perfetta alle lamentele dei millennial sull’assenza delle chat, dei social e delle “cose di internet” nella letteratura contemporanea. Eccovi un libro fatto soltanto della nostra vita al pc e al telefono, che in effetti è dove passiamo la maggior parte della nostra vita. Chi non è chronically online non capirà assolutamente niente, mentre chi come me si scoprirà in grado di riconoscere tutti i trend di TikTok citati o sottintesi dovrà farsi un po’ di domande, magari le stesse, cupissime, che risuonano tra le pagine del libro. Un ritratto delirante, velenoso, apocalittico – a tratti idiota e a tratti profondissimo – del disgraziato momento storico in cui viviamo, tutto decorato di emoji kawaii. (Clara Mazzoleni)

Nadeesha Uyangoda, Acqua sporca (Einaudi Stile Libero)
C’è un libro fotografico uscito nel 2024 a cui, di tanto in tanto, torno con la mente. Si chiama Brilla sempre, l’autore è Matteo de Mayda, un fotografo veneto. Matteo, alla morte di sua madre, che di mestiere secondo la carta d’identità faceva la “pulitrice”, è andato a fotografare i luoghi che lei puliva. Androni, scale, palazzi, cortili, parcheggi. Si chiamava Serenella. Ho ripensato a queste immagini di una provincia borghese abitata per alcune ore di nascosto da intruse pagate leggendo Acqua sporca di Nadeesha Uyangoda, un grande ma piccolo, per pagine, romanzo familiare tra la Brianza e lo Sri Lanka al cui centro c’è la storia di Neela, per una vita badante nella provincia dell’Italia del nord, che prende la decisione – scioccante per la figlia e le sorelle – di lasciare tutto e tornare sull’Isola. Ho seguito la scrittura di Uyangoda nel corso di diversi articoli e di due libri di non-fiction che hanno preceduto questo primo romanzo, e come nell’illustrazione di copertina, qui fiorisce: la vita di un’immigrata solitaria, e dedita alla cura di altri anziani corpi, è resa con un’amarezza che non riesce a non essere anche tenera. La sua costellazione familiare invece legata allo Sri Lanka – le sorelle, i cognati, la madre – è un mondo teso a trovare un equilibrio tra un Paese sempre più marginale e questa Italia da cui arrivano soldi e brevi telefonate, e in cui i legami si perdono, sempre più rarefatti. È un romanzo riuscitissimo, ambizioso e gigante per queste 250 pagine: in parte ottocentesco, in parte modernissimo, capace di tenere in mezzo questioni di classe, di famiglia, di migrazioni, di psicologia, di identità. (Davide Coppo)

Raffaele Alberto Ventura, La conquista dell’infelicità (Einaudi)
Sembra passata una vita da Teoria della classe disagiata, il saggio di Raffaele Alberto Ventura che ebbe una discreta fortuna tra lettori millennial e non. Era solo il 2017 ma nel frattempo Silicon Valley è diventata una distopia, abbiamo vissuto due anni reclusi con la minaccia di una pandemia, l’intelligenza artificiale ha contagiato le nostre vite, la destra più o meno estrema domina l’Occidente, e abbiamo persino iniziato a temere la Terza guerra mondiale. In questi 8 anni la condizione di finto benessere e dei conseguenti problemi da primo mondo che quel libro provava a esaminare dovrebbe essere dunque superata dalla realtà. Ma invece La conquista dell’infelicità, che di quel libro può essere considerato un seguito, continua a scavare in una materia sentita da più o meno tutti quelli che appartengono alle ultime tre generazioni di occidentali e cioè, per usare le parole dell’autore, quel «conflitto tra il modello della realizzazione personale (sii quello che sei) e i vincoli dell’organizzazione economica della società (sii quello che vuoi)». Semmai questo conflitto, e con esso i limiti intrinsechi del sistema, in questo intervallo di tempo, sono diventati straordinariamente più evidenti. Ventura descrive infatti un “disagio” che cresce a ritmi esponenziali e una ricerca della realizzazione personale che si caratterizza come vera malattia sociale di quest’epoca. Lo fa utilizzando la letteratura (AmletoPiccole donne), il cinema (FantozziInterstellar), e ovviamente la filosofia e la sociologia, cospargendo i suoi ragionamenti di citazioni e intuizioni, in cui ritroviamo spesso la nostra condizione passata e presente e inframmezzando la lettura con frasi mantra che sembrano cartelli Instagram, ma che messi insieme formano dei minacciosi comandamenti generazionali. (Cristiano de Majo)

Percival Everett, Dottor No (La Nave di Teseo)
Traduzione di Andrea Silvestri
Dottor No è un libro che piacerà moltissimo a due tipi di persone: quelli che amano i romanzi di spie e quelli che detestano i romanzi di spie. Chi rientra nella prima categoria, di questo romanzo apprezzerà l’impegno di Everett nel dimostrare che la parodia può essere (anche) una prova d’amore, in un’operazione che ricorda moltissimo quello che Robert Moore fece per il giallo con il film Invito a cena con delitto. Chi rientra nel secondo gruppo, invece, amerà questo romanzo come si amano gli esperimenti scientifici perfettamente riusciti (e che ci dimostrano che abbiamo sempre avuto ragione): provare empiricamente la ridicolaggine di un genere narrativo, indicare col dito le forme buffissime degli ingranaggi che muovono la macchina narrativa, Dottor No è Everett che come un bambino si diverte a smontare il giocattolo spy novel e a esporne i pezzi al pubblico ludibrio. E lo fa nella maniera esibizionistica e chiassosa del bambini anche: «John Milton Bradley Sill voleva essere un cattivo di Bond», dice esplicitamente, presentando il villain di questa storia, un incubo di megalomania e ricchezza, incrocio orrendo tra Elon Musk e Kanye West. Vi chiederete che storia racconta questo romanzo: è difficile dirlo anche per me che ho letto il libro. L’unica cosa di cui sono sicuro è che c’è un supercattivo, il John Milton Bradley Sill di cui sopra, che intraprende un viaggio dal Kentucky alla Corsica che è in realtà una missione di distruzione assieme al professor Wala Kitu, figura delilliana, specializzato nello studio «del niente». Questo niente è il vero protagonista del romanzo, oggetti di infinite e dottissime ponderazioni, di elaborate ed erudite ironie. Wala spiega pure che il suo nome in Tagalog e in Swahili significa proprio «niente niente», dichiarazione che per un attimo mi ha fatto illudere di aver colto il punto di Everett: la cultura oggi è niente e noi siamo qui a parlare di niente, proprio come Wala Kitu e John Milton Bradley Sill. Poi però arriva il punto del romanzo in cui Wala dice che quella storia sul significato del suo nome in Tagalog e in Swahili era una cazzata, e allora a chi legge viene spontaneo chiedersi “e tutto il resto? Era vero, quello? O era una cazzata anche quella?”. E lì ho capito davvero: questo libro è tutto uno scherzo riuscitissimo, non è vero niente, non succede niente, e the joke’s on you, che hai letto fino a qui. (Francesco Gerardi)

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