Con Sotto le nuvole Gianfranco Rosi è riuscito nel miracolo di raccontare una Napoli inedita

Vincitore del Premio Speciale della Giuria alla Mostra del cinema Venezia, il nuovo film di Rosi, appena arrivato nelle sale, riesce dove tanti in questi anni hanno provato e fallito: raccontare Napoli in modo diverso.

18 Settembre 2025

Gianfranco Rosi è tornato al cinema con Sotto le nuvole, che ha vinto il Premio Speciale della Giuria all’82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il film, uscito nelle sale italiane il 18 settembre, rappresenta una nuova consacrazione per un regista che ha saputo intrecciare il linguaggio del cinema con l’osservazione della realtà, scollando la verità del vissuto dal documentario per lasciare al pubblico la possibilità di trovare il suo orizzonte di significato. E Venezia lo ha riconosciuto con importanti premi nel corso degli anni, a partire dal Premio Orizzonti per Below Sea Level (2008), un’opera che anticipa molti dei temi poi esplorati in Nomadland: dalla disparità sociale alla deriva elitaria che avrebbero alimentato l’ascesa del trumpismo. Poco dopo, Rosi ha ricevuto anche il Leone d’Oro per il Miglior Film con Sacro GRA (2013), un distillato di esistenze ai margini che si intrecciano intorno al Grande Raccordo Anulare e alla periferia romana.

Si tratta di mondi sommersi, sofferenti e dimenticati, cui Rosi si dedica con il rispetto che si riserva a chi custodisce una forma autentica di umanità. Per questo i suoi film non sono documentari, ma hanno l’immediatezza del vero, e non sono finzione, pur carichi di metafore e citazioni. Rosi gira senza sceneggiatura e si affida a persone reali, non attori professionisti, quasi a voler affermare che la realtà è già abbastanza potente, visionaria, e a tratti persino assurda. A Napoli, dove si è trasferito per quasi quattro anni per girare Sotto le nuvole, il regista militante ha resistito all’imperativo iconografico imposto dai cliché che dominano cinema e televisione, costruiti attorno alla triade Maradona, Gomorra e L’Amica Geniale. Nel suo film non ci sono scudetti, mafie o folklore: Rosi arriva addirittura a filmare in bianco e nero un territorio che ha fatto dell’esuberanza cromatica il proprio marchio distintivo. Forse è proprio questo a rendere Sotto le nuvole un film unico: è inedito, privo di déjà vu. Nella terra di mezzo sospesa tra il Vesuvio e i vulcani sotterranei dei Campi Flegrei, tra il mare, il cielo e le fumarole della solfatara di Pozzuoli, Rosi ha scoperto un mondo che non conoscevamo e e lo ha raccontato attraverso un dedalo di storie che, pur diverse tra loro, esplorano un attaccamento profondo alla realtà, unito a un senso del dovere ostinato, quasi titanico.

Sotto il vulcano

C’è un maestro di strada che accoglie gli studenti nel suo negozio di antiquariato di provincia; un procuratore e la sua equipe impegnati a dare la caccia ai tombaroli tra Pompei ed Ercolano; gli archeologi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e quelli dell’Università di Tokyo che scavano a Villa Augustea; un popolo in divisa di carabinieri, vulcanologi e operatori dei vigili del fuoco che rispondono alle telefonate del 115; e un marinaio siriano a bordo di una nave carica di grano ucraino imbarcato sotto le bombe di Odessa. La vita va avanti, mentre tutto intorno trema e i fantasmi del passato – l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C., il terremoto dell’Irpinia del 1980, le guerre e il mondo in fiamme – aleggiano sul presente.

«Il Vesuvio fabbrica tutte le nuvole del mondo», disse Jean Cocteau, e cita Rosi subito all’inizio del film. Le sue nuvole filtrano il sole attenuando le ombre e i contrasti, sono un dispositivo narrativo e cinematografico, ma hanno anche l’aura di un presagio, e ampliano visivamente il campo d’azione. Sono al contempo una presenza familiare e straniera: si assomigliano tutte, come le acque del mare, eppure sono sempre diverse, vengono da lontano, sono iperoggetti direbbe il filosofo Timothy Morton, fenomeni che trascendono il qui e l’ora.

Il fatto che Napoli e i paesi vesuviani e flegrei non rappresentino bolle autoreferenziali, ma snodi di storie più ampie, punti di contatto con l’altrove, Rosi sembra ricordarlo in tutto il film. Con la storia del marinaio siriano e delle trentadue mila tonnellate di grano ucraino arrivate per sfamare il Mediterraneo – come ai tempi dell’Impero Romano – che riverberano nei tutorial di cucina di uno studente del doposcuola, ma anche con momenti meno eclatanti, quando gli studiosi del Museo Archeologico Nazionale riflettono sulle somiglianze tra una dea della fertilità indiana che chissà come ci è arrivata a Napoli, e la Venere pompeiana.

Napoli è un immenso fuoricampo

La loro cura per cocci e frammenti di statue si dissolve nel vuoto pneumatico della città sotterranea scavata dai tombaroli. «Rannicchiati come topi di fogna hanno cancellato la nostra memoria», ammette il procuratore. Si sono saccheggiati tutto e se lo sono rivenduto al migliore offerente, collezionisti e musei internazionali che nessuno cita mai, ma sono l’elefante nella stanza. Queste storie spostano l’attenzione dal particolare all’universale, narrano le connessioni tra Oriente e Occidente, passato e presente, umano e non umano. Dopotutto, per Rosi, «Napoli è un immenso fuoricampo» e la circumvesuviana, spettrale e quasi irriconoscibile nel film, è la sua macchina del tempo, un collante tra spazi e tempi diversi.

Si avverte una profonda empatia tra il regista e i personaggi del film, che in alcuni momenti sfocia in una commedia involontaria, tenera e umana. Accade, ad esempio, nel modesto negozio di antiquariato di provincia, il doposcuola, dove l’anziano proprietario Titti — parlando con un ragazzo del libro che sta leggendo — spiega con tono scherzoso e una lieve balbuzie che I Miserabili di Victor Hugo si intitola così proprio perché racconta dei miserabili, «come voi», dice. Alla centrale operativa dei vigili del fuoco, invece, arrivano telefonate di ogni tipo: c’è chi chiede l’ora, chi vuole sapere se ci saranno altre scosse, come se i pompieri potessero prevedere il futuro. Sono piccoli rituali collettivi per esorcizzare paura e solitudine, che si alternano a richieste d’aiuto più drammatiche, come la telefonata di una donna vittima di violenza domestica.

Le voci e i dialoghi dei personaggi di Rosi sono così: semplici, rivelatori, spesso disarmanti. Quasi all’inizio del film, l’archeologa Maria, scendendo nei sotterranei del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, annuncia con solennità: «Da qui entriamo nell’eternità». Avvolta in un camice bianco, con la schiena curva di chi ha dedicato tutta la vita al proprio lavoro, ci guida nel limbo delle statue dimenticate. Le illumina una a una con la torcia, e osserva: «Sopra ci sono quelli che ce l’hanno fatta», con il tono di chi, ormai, non sta più parlando soltanto di statue.

Dedicato a Roberto Rossellini

Le immagini del regista e le parole di chi quelle vite le riempie tutti i giorni si compenetrano. I film di Gianfranco Rosi sono un ritratto collettivo e partecipato del mondo, e proprio per questo sfuggono alle categorie prestabilite, re-immaginando un cinema stanco. Questa visione di cinema prende forma in una sala derelitta e visibilmente abbandonata, dove il regista proietta Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini, pellicola cult in cui il neorealismo di Napoli e dei suoi abitanti scompagina la vita di una coppia inglese in crisi esistenziale. L’omaggio è una digressione dal mondo reale, certo, ma anche un’esperienza allucinatoria che proietta il passato nel presente e viceversa, come ad annunciare che il cinema non è morto, è ancora capace di toccare e rivelare.

È con questa citazione che Rosi trasforma Sotto le Nuvole in un manifesto poetico, riaffermando la propria libertà — concessa — di sperimentare attraverso un film-saggio che esordisce neo-realista, per poi scoprirsi surrealista. Ad amplificare il valore metaforico del finale contribuiscono i suoni ancestrali dell’artista inglese Daniel Blumberg, premio Oscar per la colonna sonora di The Brutalist (2024). Con le sue registrazioni subacquee e i sassofoni, Blumberg non solo interpreta i paesaggi meta-sensoriali di Rosi, ma intensifica un finale declinato al futuro anteriore, sospeso in un tempo di speranze e ritorni attesi, dove il domani si guarda indietro.

E vinsero tutti felici e contenti

Date le tantissime tensioni che hanno caratterizzato questa edizione della Mostra ci si aspettava un finale molto più polemico. La giuria presieduta da Alexander Payne, invece, è riuscita nel mezzo miracolo di tenere contenti tutti. O quasi.

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