L'editoriale di "Gran Turismo", il numero estivo ora in edicola e sul nostro store in cui parliamo di come il turismo sia ormai diventato un problema politico.
Ero ancora rapito dal getto continuo di fan fiction su Tralalero Tralalà e Ballerina Cappuccina che inondava con sommo sollazzo il mio feed di Tiktok, quando senza nemmeno rendermene conto era già giugno, “e non abbiamo ancora avuto un momento per parlare del nostro Pride, che ormai è qui” parafrasando Arbasino e l’incipit di quel Fratelli d’Italia, sorta di carbonara e molto snob educazione all’omosessualità, uscito nella prima versione nel 1963 in un Paese senza Pride né militanza organizzata.
Perché se negli Stati Uniti la scintilla dei moti di Stonewall si accese nel giugno del 1969 (ecco perché giugno è il mese del Pride), qui da noi si dovette attendere almeno fino al 1972, quando un gruppuscolo di temerari si ritrovò per protestare davanti al casinò di Sanremo, dove si svolgeva un certo Congresso Internazionale di Sessuologia, in cui si discuteva di omosessualità come malattia e devianza, dando vita a quello che viene ricordato come il primo Pride italiano, sebbene al tempo non si chiamasse mica così.
Dopo il rainbow washing
Ad ogni modo, dicevo, è arrivato giugno e a inframezzare il mio amato Italian Brainrot l’algoritmo ha cominciato a propinarmi una serie di video-meme carichi di quella meta-ironia che tanto piace a noi millennial in cui dediche da cuore spezzato, sedotto e abbandonato, vengono associate a foto orrende di patetici reparti addobbati a tema rainbow di grandi magazzini statunitensi, mettiamo Target o roba del genere. Il senso è chiaro: ah, come ti manca il rainbow washing una volta che non ce l’hai più. Perché certo, col nuovo (ma vecchio) Presidente Trump e la nuova (ma vecchia) linea sul gender e i gay e le lesbiche e le persone trans e tutto il resto, non è mica tanto aria neanche per i supermercati o le stazioni di servizio, e poi anche le caffetterie e le multinazionali tutte e le banche e le società di consulenza, di fare la bella faccia progressista e tirare insieme quattro bandierine arcobaleno e una rainbow cake e celebrare poi la diversità e l’orgoglio con un bel post su LinkedIn.
Come sempre quando si tratta di meme, la prima cosa difficile da capire è quanti livelli di ironia si celino sotto alla superficie. Quest’ondata di meme, che, come tutte le ondate di meme, è nel suo piccolo spirito del tempo, cosa intende dire veramente? Che con un po’ di distacco e con la doccia fredda di un Trump 2 presidente (e con le destre che avanzano in Europa con una nonchalance che non si ricorda) si è capito quanto le battaglie trasudanti virtue signalling dei bei tempi woke andati fossero forse un po’ fuori fuoco? Oppure sono un sarcastico “sono trent’anni che lo dico!” (da leggere con la voce di Cacciari) a ricordare che loro, i puri, non si sono mai fidati della spalla offerta dalle aziende e adesso infatti eccoci qua, al primo cambio di vento, con le suddette aziende che si fanno di fumo, ma non noi, detentori della sacralità e della verità della lotta? Oppure ancora, sono manifestazione di sollievo, perché solo nel nostro divenire minoritari (concettualmente) come minoranza (numerica) possiamo esistere e vivere una vita non-fascista?
La normalizzazione del Pride
Meme a parte, sono questioni su cui la comunità si interroga, e litiga, in questo momento storico molto più di prima anche qui da noi, con le parate dei Pride che si avvicinano, e si contano gli sponsor e si fa la tara con quelli dell’anno scorso e degli anni prima. Si valuta chi si espone e chi no. Chi si espone di meno. Chi fa finta di niente. Ci sono dentro tante cose. Da un lato la famosa storia del nascere incendiari per morire pompieri. Dall’altro l’etica e l’estetica della militanza e come si sono evolute. I Pride come strumento, potremmo dire piattaforma, ormai hanno più di 50 anni. Nascono come necessità di sopravvivenza, come espressione di esistenza. Poi sono diventati palcoscenici di rappresentazione. Poi c’è stata l’Aids e in quel periodo erano entrambe le cose, erano insieme funerale e rivendicazione e slancio. Quando le persone appartenenti alla comunità morivano come mosche, i Pride e le attività dei gruppi di attivisti servivano a far leva sull’opinione pubblica, perché solo attraverso il voto si sarebbe potuto influire sulle politiche sanitarie e sociali dei governi. Per fare questo servivano ambasciatori che funzionassero a livelli diversi, serviva Act Up, come serviva l’outing dei Vip che per bigotteria non si dichiaravano, come serviva la foto di Lady Diana che stringe la mano di un malato senza guanti.
In una fase di urgenza e lucida disperazione come quella, con un obiettivo così totalizzante che era l’esistenza stessa della comunità, non muoversi e agire come un sol uomo sarebbe sembrato credo a tutti stupido e uno spreco di energia. E poi dagli anni 2000 in poi, mentre l’emergenza lentamente rientrava il Pride diventa sempre più conciliazione invece che scontro. Normalizzazione? Beh, non è una bella parola, ma nell’avanzamento generale è di questo che parliamo.
L’equivoco dell’inclusione
Fino a oggi (o forse fino a ieri) con la città tutta fr*cia che un sabato di giugno canta e balla e ci sono le famiglie etero con i bambini e c’è anche il carro di quelli di – inserire nome di società di consulenza multimiliardaria a scelta –. E dire se questo sia un bene o un male è davvero molto complicato. Perché molto probabilmente non è solo un bene o solo un male. In Occidente oggi la comunità Lgbtq+ è diventata una parte completamente organica della società progressista, e perché questo succedesse ha scelto di fare dei compromessi. Molto recentemente poi, quando ha deciso di forzare la mano su molti di questi compromessi per ottenere più potere o visibilità, che – sia chiaro – sono intenti più che legittimi, perché le cose si cambiano in meglio solo acquisendo potere, l’ha fatto a partire dalle roccaforti del progressismo radicale statunitense con armi e linguaggi che le si sono rivoltati contro, e che possiamo riassumere nella parola wokismo.
Si dovrebbe qui aprire un grande capitolo sul merito di quelle posizioni e sul modo in cui si è scelto di difenderle e di nutrirle. Su quanto idee in teoria inattaccabili per chiunque si dichiari progressista e liberale – inclusione, parità di diritti, autodeterminazione, libertà di scelta (etc), cioè roba da illuminismo francese, non proprio mattane cadute dal cielo l’altro ieri – centrifugate da un attivismo che i social hanno disinnescato, riducendolo a puro atto performativo in cui l’ostentazione del proprio radicalismo si è fatta gara suicida e auto-sabotaggio, siano poi, quelle idee, diventate versioni perverse e speculari della peggior propaganda destrorsa.
E allora si è cominciato anche di qua a difendere sempre più le identità come prescrittive, normative e innate invece che cercare di agire sui dispositivi sociali e culturali, che rendono rilevanti quelle stesse identità, possibilmente abbattendoli. Si è cominciato a intendere l’inclusione come un alveare in cui esiste un piccolo spazio in cui ogni identità singola potesse trovare il proprio perfetto guscio invece che prendere in considerazione la possibilità di poter stare magari non tutti proprio comodi, ma almeno tutti insieme e tutti alla pari, in uno spazio che avesse più l’aria di un gradiente, senza caselle dedicate. E il linguaggio teoricista che abbiamo usato poi, non ci ha di certo aiutato. Ha escluso, come è successo del resto in altre tentate rivoluzioni, in altri decenni. E poi le cose sono andate come sappiamo.
Vincere e avere ragione
Per tornare alle cose più spicce e meno filosofiche, è un po’ come quando Renzi si è giocato l’all in col referendum del 2016. Pensava di avere i numeri, e ci ha provato. E beh, è andato tutto a scatafascio. Noi pensavamo di avere i numeri, e ci abbiamo provato. Se c’è una lezione che credo possiamo imparare da questi anni, è una lezione piuttosto consunta e già sentita ma pur sempre valida: si ha ragione quando si ha vinto, e non si vince perché si ha ragione. Quindi ora ci troviamo dove ci troviamo e… che si fa? Si fanno le barricate? Si riprova a portare più persone possibili sul nostro carro? Si includono anche quelli di – inserire nome di società di consulenza multimiliardaria a scelta – oppure abbiamo numeri e strategia per cavarcela da sol*?
E ancora, queste aziende, sono tutte uguali perché emanazione del capitale, oppure no? Cioè, un’azienda che con dei programmi di inclusione e diversity nei confronti dei dipendenti che appartengono alla comunità Lgbtq+, che offre ai dipendenti protezione e welfare che il contratto nazionale del lavoro non gli darebbe, e poi si fa bella con un carro al Pride e un post su LinkedIn sta facendo bene o sta facendo male? I dipendenti della comunità che ci lavorano vivono una vita migliore o peggiore rispetto ai dipendenti di un’azienda uguale che non fa niente di tutto ciò?
Oppure è sbagliato a prescindere, perché il benessere della comunità dev’essere conquistato attraverso la politica e non attraverso la beneficenza e il buon cuore di facciata di un grande gruppo privato che è sempre e comunque braccio disarmato del capitale, e agendo così intende solo anestetizzare la coscienza politica e sindacale di chi ci lavora, che continua a venire sfruttato ma deve pure dire grazie perché se gli danno del fr*cio può andare a fare brutto con le risorse umane?
E se la consapevolezza del proprio sfruttamento è strumentale all’emersione della propria consapevolezza di classe e di comunità, quanto estesa deve poi essere l’intersezionalità di questa coscienza? Qual è la soglia di posizioni condivise accettabile perché ci si possa definire a tutti gli effetti militanti e non automi strumentalizzati e inebetiti dal rainbow washing? E questo in un Paese poi in cui all’ultimo referendum il quesito sulla riduzione del tempo per la richiesta di cittadinanza ha avuto un risultato da far venire la pelle d’oca. Io non ho una risposta, però sono cose che dovremmo chiederci con una laicità che mi pare ci stiamo perdendo sempre di più.

Voli low cost e affitti brevi hanno contribuito alla democratizzazione del turismo. Poi qualcosa è cambiato, viaggiare è diventato costoso, difficile, dannoso. Ma il turismo non è diminuito, anzi. Ne parliamo sul nuovo numero di Rivista Studio, "Gran Turismo", appena arrivato in edicola.