La semagludite è una rivoluzione per l’industria alimentare e farmaceutica. Ma cosa succede alla considerazione che abbiamo del nostro corpo?
Questo articolo è tratto dal numero dal numero dal numero 62 di Rivista Studio, “Ultracorpi”. Puoi acquistarne una copia in edicola, nelle librerie selezionate oppure qui, sul nostro store.
Un tempo qui era tutta inclusivity, verrebbe da dire guardando fuori dalla finestra (cioè scrollando TikTok) e scuotendo un po’ la testa, indignati. E si potrebbe chiudere lì la questione. Ci abbiamo provato, abbiamo fallito, per colpa dei poteri forti, poi ha pure vinto Trump, il treno è passato, siamo in piena restaurazione, rimettiamoci le metaforiche parrucche e accettiamo che il corpo auspicabile è uno e uno soltanto: il solito. Quello dei maschi disegnati sui metrò, perché se restaurazione dev’essere allora lo sia in grande stile, e si faccia piazza pulita anche degli eterei magrissimi maschi indie di fine anni Duemila. Il corpo sia allenato e guizzante, il muscolo teso, l’epidermide liscia, il six pack ben scolpito come da affissione Armani della Milano da bere.
Però le cose non sono mai così facili e lineari. Perché, a guardar bene questi nuovi maschi ossessionati dalla palestra, nulla o quasi hanno in comune con quei corpi “perfetti” là, e sono forse invece il risultato di qualcosa di più complesso e quindi, come sempre, anche di più interessante. Di certo, c’entra la palestra. In uno stupendo episodio di Fashion Neurosis, il podcast di Bella Freud, Rick Owens, uno che possiamo senza dubbi annoverare tra i più strenui oppositori alla restaurazione, parla dei corpi degli altri e del corpo suo. Di come sia passato dall’essere un ragazzino sovrappeso alla scultura vivente che conosciamo, di quanto l’idea di distorsione del corpo attraverso gli abiti sia una sua ossessione e poi dice una cosa che forse coglie in un attimo il cambio di paradigma a cui assistiamo oggi, ossia che l’allenamento, il “workout”, è la nuova couture.
Il lusso dell’allenamento
Il culto del corpo come culto del lusso. Ma anche il culto del corpo come culto del tempo per il corpo. Le centinaia o migliaia di ore passate in palestra e documentate sui social come le centinaia o migliaia di ore spese per realizzare capi unici e costosissimi e inserite nelle press release delle sfilate di alta moda. L’artigianalità del muscolo, insomma. E di conseguenza, l’«elevation» (definita dalla giornalista e critica Cathy Horyn «the stupidest word around», la parola più stupida che rimbalza nell’industria della moda) della palestra da surrogato dello sport, da muscolificio tamarro e maleodorante ad atelier del benessere e della forma e club esclusivo. Un’elevation che prevede un’organizzazione in caste per cui, nella stessa città, un unico abbonamento base non permette l’accesso a tutte le sedi dello stesso brand, ma solo a quelle di una certa fascia, con ovviamente risvolti psicologici micidiali e sensi di inferiorità e forse rinunce ai beni di prima necessità pur di raggiungere l’upgrade di livello, in fin dei conti forse poi rendendo il tutto olisticamente funzionale al dimagrimento.
Ma quando è successo che questo culto del corpo ha catturato l’immaginario collettivo? In che modo la palestra è passata dall’essere un luogo dove si scolpisce la carne o si cerca di acchiappare, a laboratorio della modernità, palcoscenico sul quale si recita il melodramma grazie a Dio non serio della nostra identità contemporanea?
In primis è forse da notare come sia cambiata la percezione stessa dell’allenamento, o appunto, del workout. Se per anni o decenni la parte di fatica veniva nascosta o rimossa in favore del risultato finale, oggi è parte integrante delle nostre personalità. Sembra (ed è) preistoria il tempo in cui i Vhs di Jane Fonda proponevano allenamenti casalinghi per sollevare glutei e combattere la gravità. Attività private e imbarazzanti, funzionali a un ideale di bellezza che poi si tendeva a spacciare come raggiunto senza sforzo, come benedizione genetica o divina. La pandemia, come sempre, ha fatto il suo. E se già da prima i selfie a torso nudo con bicipite guizzante nello specchio dello spogliatoio della palestra avevano invaso i feed, la reclusione forzata e il ritorno all’allenamento davanti a TikTok ha portato per opposizione a uno sdoganamento totale del sudore come bene ostentativo.
L’allenamento come liturgia
Oggi è l’allenamento in sé il contenuto da vendere, anche più del corpo risultante. E lo standard sembra riguardare più il quanto ci impegniamo che non quali risultati effettivamente raggiungiamo. In questo si manifesta forse l’inclusività 2.0 post pandemica. Una forma di inclusività quindi anche un po’ ricattatoria e cattolica, in cui non conta tanto se ci riesci, l’importante però è che ti impegni. L’importante è partecipare. No pain no gain. Perché è attraverso il dolore e la penitenza che si giunge all’illuminazione.
E come ogni religione, questo nuovo culto dell’allenamento si porta dietro una liturgia e quindi un’estetica, in un cortocircuito che genera istantanee anche molto gay. Perché del resto in questa ricerca del corpo maschile auspicabile e desiderato rientrano dalla finestra immaginari quasi antichi. C’è una componente erotica che, seppur nascosta, è sempre stata presente, quasi sottintesa, nell’atto del costruire il corpo ideale. Nella Grecia antica, certo, ma anche negli anni Cinquanta, con il lavoro di fotografi come Tony Lanza e Russ Warner e soprattutto Bob Mizer, che con la sua agenzia Athletic Model Guild iniziò a veicolare al grande pubblico il nudo maschile (mai integrale) attraverso il linguaggio del body building e delle pose da wrestling. Tutto succedeva su riviste formalmente dedicate al fitness (come Physique Pictorial), ma concretamente utili alla costruzione di un immaginario masturbatorio per maschi omosessuali in cerca di contenuti soddisfacenti e alle prese con le voglie che non osavano pronunciare il proprio nome.
È proprio lì che nascono i feticci che, attraverso infinite rivisitazioni, ancora popolano le fantasie ormai mainstream e liberate degli anche più raffinati profili Onlyfans, così come, e questo è il vero cambio di passo, i profili Instagram degli influencer, dei personal trainer e dei “gym bro” più etero. Perizomi, jockstrap, calzini, short shorts, canottiere quando non crop top. Oppure i tessuti tecnici e fascianti, sintetici, seconde finte pelli che si fanno quasi BDSM. Nell’eterna reinterpretazione ormai i simboli non hanno più a che fare con le fonti, e la tensione delle immagini postate si fa asessuale o forse pansessuale, non fa in fondo differenza. Sicuramente è a-sensuale, inteso come lontana dai sensi perché il calzino o lo slip sudato esibito è puro simulacro del sesso, che eccita in modo pulito, perché la puzza è immaginata, è una puzza vista e non annusata, perché rimossa grazie allo schermo. Il risultato, signora mia, è che non si capisce più niente.
Il corpo-ideale
Quel bono che solleva pesi scalzo sta cercando qualcuno che glieli lecchi nello spogliatoio o ha notato che i suoi Reel così ottengono più visualizzazioni e quindi perché no? Le occhiate insistenti sotto alle docce sono preludio a incontri carnali o la ricerca di un’ispirazione per il prossimo tatuaggio? In questo tripudio di pacchi e culi che più vengono esibiti e meno vengono erotizzati, quali sono gli obiettivi reali dei maschi? Negli specchi delle palestre, che tipo di corpo desiderano per sé stessi oggi i maschi? E quale corpo desiderano? Il proprio, quello altrui oppure un corpo che non esiste, un corpo ideale e indefinito, che si sublima quindi nella ricerca, nell’allenamento?
Di certo l’ideale mainstream non è più il corpo villoso e neanche quello nervoso, scattante del passato, à la Bruce Lee per intenderci, non è più un corpo di gladiatore e non è più il corpo sportivo con tutte le varianti formali che ogni disciplina per sua natura sviluppa. È piuttosto un corpo muscoloso ma rassicurante, non aggressivo. Un corpo rilassato e non teso. Quasi un dad-bod, un corpo con l’accenno di pancia del maschio maturo, in nuce. Un corpo come quello di un gigante gentile, che fa sentire al sicuro e allontana ogni possibile red flag. Per essere ancora più precisi, un corpo come quello di un bambino ingrandito in scala, glabro, compatto ma morbido e, per sua natura, ancora una volta non sessuale.
Da tempio del sudore e delle verità inclementi, la palestra si è evoluta in un territorio complesso e sfumato, dove estetica, identità e desiderio si intrecciano in modo inedito e sfuggente. È diventata il luogo in cui, forse, si sviluppa un processo senza fine che trova il suo significato nell’inseguire un ideale sempre mobile. E allora magari in un futuro nemmeno troppo lontano davvero tornerà un ideale ellenico da Ginnasio, in cui tra uno squat e un bibitone proteico si disserterà di arte e di filosofia, e saremo tutti nudi e comunque questo non sarà un problema, perché di scopare non interesserà proprio più a nessuno.