5 secondi, Paolo Virzì sta sempre e comunque dalla parte dei giovani

Il nuovo film del regista arriva nelle sale il 30 ottobre e contiene una umile ma convincente proposta: lasciamo fare ai ragazzi e alle ragazze.

di Studio
27 Ottobre 2025

Nella lingua italiana non esiste una combinazione di parole micidiale come «che cos’è che ti fa soffrire?». Davanti a questa domanda, all’interlocutore resta soltanto una di due possibilità: la resa oppure la ritirata. In realtà, esiste anche una terza possibilità, ma è una possibilità che solo Valerio Mastandrea può esercitare perché solo Valerio Mastandrea ha quella faccia ed è capace di quella espressione di spaesamento. «Che cos’è che ti fa soffrire?», chiede Matilde (Galatea Bellugi, se avete visto Gloria! sapete che è una delle giovani attrici più interessanti che abbiamo in Italia) ad Adriano (Valerio Mastandrea), e Adriano ovviamente non risponde perché una risposta a questa domanda non si può dare con le parole. Ma Adriano ha la fortuna di avere quella faccia e di poter fare quella espressione: una così triste e confusa e sperduta che basta quella per sapere tutto quello che c’è da sapere di questo personaggio, del suo passato, della sua storia. «Penetra nelle anime dei personaggi con empatia e compassione, prendi qualcosa di molto doloroso e prova a sorriderne», ha detto Paolo Virzì di 5 secondi, il suo nuovo film, che arriva nelle sale il 30 ottobre, distribuito da Vision Distribution.

Qualcosa di molto doloroso è una buona approssimazione (per difetto), della vicenda di Adriano Sereni, ex avvocato civilista di Roma Nord, socio fondatore di un potentissimo studio, ritiratosi dal mondo e dalla vita dopo la morte tragica della figlia Elena. Adriano vive in una catapecchia nella campagna toscana «invernale, selvatica, poco invitante, un postaccio non da cartolina», spiega il regista. La casa di Adriano è lurida, il soffitto gocciola, il frigo è vuoto, a stento ci si avvicina il postino per lasciare le raccomandate. Non è un ritiro, quello di Adriano, ma una punizione, autoinflitta: la morte della figlia è colpa sua, così dice la sua ex moglie Letizia (Ilaria Spada), così sostengono gli avvocati di lei, così sembra propenso a decidere anche il giudice (un notevole Giancarlo De Cataldo che per l’occasione torna magistrato giudicante, come all’inizio della sua carriera) del processo per omicidio colposo in cui Adriano è l’unico imputato.

Sua figlia era malata di Sla, lui l’ha portata al lago di nascosto, l’ha lasciata da sola cinque secondi di troppo. Così la pensa pure Adriano, che infatti fa di tutto per convincere gli altri – soprattutto l’unica amica che gli è rimasta al mondo, la collega-spasimante Giuliana, interpretata da una frizzantissima e malinconicissima Valeria Bruni Tedeschi – a lasciar perdere. A lasciarlo perdere. Adriano vuole starsene lì, nella sua personale fine del mondo, tra gli alberi morti e le foglie secche. E a questo suo ergastolo Adriano ci tiene moltissimo, perché è la punizione che sente di meritare. Questo suo confino Adriano non vuole lasciarlo mai, perché è l’unica maniera di restituire senso al mondo che gli ha portato via la figlia: se è morta per colpa sua, è giusto che lui soffra, da solo, al freddo, al buio, fino alla fine dei suoi giorni.

L’unica maniera di salvare un uomo intrappolato in una stanza è fare irruzione, sfondare la porta e rompere le finestre e spaccare i muri, ed è esattamente questo che fa Matilde (pure letteralmente, in una scena): un giorno compare dall’altra parte del filo spinato con cui Adriano ha circondato il suo carcere privato, assieme a «un gruppo di elfi dei boschi», come chiama Virzì questa sgangherata banda di ragazzini e ragazzine che di giorno piantano la vite e di notte fanno casino. Ormai misantropo incallito, Adriano all’inizio li vede soltanto come una scocciatura, cerca di scacciarli prima a parole e poi per via legale. Qui il personaggio diventa per Virzì il modo di dire la sua sul cosiddetto conflitto generazionale: non c’è nessun conflitto, solo vecchi brontoloni, sconfitti, inariditi che non vogliono vedere fiorire più niente, che non accettano neanche che ci sia chi vuole provare a rinverdire il deserto in cui è stato trasformato il mondo. Virzì è dalla parte dei ragazzi – e quindi dalla parte del mondo – e in 5 secondi lo dice chiaro e tondo.

C’è una scena buffissima in cui Matilde presenta ad Adriano tutti gli “elfi dei boschi” che si è portata appresso per provare a salvare quel pezzo di terra trascurato e abbandonato che apparteneva alla sua nobilissima famiglia (Matilde è «contessina e bestiolina», ha detto il regista): hanno tutti lauree, master, studiano la terra e i suoi frutti come gli scienziati, la loro non è una fantasia passatista né bucolica ma il progetto di salvare il mondo un pezzo di terra alla volta. Quando Adriano si rende conto di chi ha davanti, capisce che l’ingenuità di cui spesso si accusa la gioventù è soltanto un’invenzione, cinica, cattiva, dei vecchi brontoloni come lui: i ragazzi e le ragazze, in realtà, sanno esattamente cosa fare. Parlando di questo film, Virzì ha detto che ci ha messo dentro la sua idea sulla salvezza del mondo: succederà solo se si realizzerà l’alleanza tra i giovani velleitari e incoscienti e i vecchi realisti e ansiogeni. Succederà solo se queste parti, come Matilde e Adriano, troveranno il modo di parlarsi, anche se capirsi sarà sempre una faticaccia. Parlandosi, però, si scopriranno le tragedie che ci tengono tutti assieme nella condizione umana: Adriano ha perso una figlia e Matilde un padre, poi una madre e una sorella gliel’hanno portata via i dottori, ed è per questo che ora non li vuole, i dottori, vicino al bambino che porta nella pancia.

5 secondi è un film che parla soprattutto di questo: della distanza che c’è tra quello di cui i ragazzi, i figli, hanno bisogno e quello che i grandi, i genitori, sono disposti a dare. La tragedia che ha rovinato la vita di Adriano è raccontata dallo stesso Adriano nel doloroso monologo con il quale ammette la colpa e accetta la condanna (un monologo in cui è contenuto uno dei più sacrosanti discorsi sulla disabilità mai visti e sentiti al cinema): se solo fossi stato capace di dare a mia figlia quello che lei aveva bisogno di avere e non quello che io ero capace di darle, dice. È ovvio che qui è Virzì che parla per bocca del suo personaggio, due padri che riflettono sull’essere padri, su quel «destino complesso e interrogarsi continuo», dice il regista. La risposta che Adriano trova è una allo stesso tempo antica e miracolosa: i figli hanno bisogno di essere portati in braccio, come fa con Matilde nel momento di estremo bisogno. I figli hanno bisogno di essere aiutati con i compiti, come fa con il figlio minore Matteo, salvandolo dalla bocciatura. I figli hanno bisogno di quello di cui hanno bisogno e l’unico lavoro di un genitore, di un padre, è accorgersene e darglielo.

5 secondi è, nella filmografia di Paolo Virzì, un fatto nuovo. La maggior parte dei suoi film sono infiltrati da un certo pessimismo, dalla convinzione che gli esseri umani siano, in fondo in fondo, forme di vita piccole e meschine, che il meglio che possano offrire a se stessi e al prossimo è una risata consolatoria e sconsolata allo stesso tempo. Questo film è la prosecuzione, e forse la conclusione, di una riflessione che il regista ha iniziato con La prima cosa bella (altro film in cui di morte si parlava tanto e in cui Mastandrea faceva il percorso uguale e contrario, qui padre di una figlia che non c’è più e lì figlio di una madre che stava per andarsene), una seconda possibilità che ha voluto e sta volendo regalare a quegli esseri umani che da giovane si divertiva tanto a smascherare e ridicolizzare. C’è ancora speranza, dice Virzì con questo film, c’è sempre speranza, anche dentro i tralci rinsecchiti di una vite che sembra morta si nasconde il verde delle foglioline che verranno. C’è ancora speranza, c’è sempre speranza, per la vite morta resuscitata da Matilde, per la vita da padre di Adriano, per l’umanità intera. Basta dare ascolto ai ragazzi, dice Virzì in 5 secondi. «Bisogna avere fiducia, tanta fiducia, amore mio», come dice Adriano a Elena, nella loro ultima conversazione.

di Studio
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