Attualità

L’importanza dello scivolo

I parchi giochi servono ai bambini ma anche al paesaggio. Una rassegna di esempi virtuosi o incongrui.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Saltare i fossi, arrampicarsi su un albero, guadare un torrente. O, molto più realisticamente, salire su uno scivolo, andare in altalena, spingere una giostra. Il parco giochi è il luogo dove oggi i bambini sperimentano la quasi totalità del gioco libero all’aperto. Quando li vediamo risalire uno scivolo contromano e, per un incondizionato istinto all’indignazione, gli urliamo che non si fa, nel profondo di noi invece ringraziamo dio che l’emisfero destro del cervello di nostro figlio non si sia ancora atrofizzato, nonostante i plurimi agguati della realtà.

I parchi giochi odierni si comprano esclusivamente in blocchi, e sono pavimentati, secondo la normativa europea del 1998, con gomma colata anti-trauma, materiale che, per quanto sicuro e drenante, dopo qualche anno di piogge viene via a pezzi, che i bambini si tirano addosso, zuppi d’acqua e fango (succede da qualche mese, per esempio, ai Giardini Giussani di Milano). Il problema del parco giochi a moduli componibili è soprattutto la scarsa immaginazione prevista nel suo utilizzo, che è sempre univoco e prescrittivo (lo scivolo va salito, e non contromano, l’altalena va fatta dondolare, e non in piedi, e non in due).

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Ho letto su una rivista di architettura che nel secolo corrente i parchi giochi potrebbero sostituire i musei come principali committenti degli architetti di grido. Ho pensato che sarebbe decisamente il caso. E non solo perché sono tornata a casa da Londra con più foto del Diana Memorial Playground che del British Museum; ma proprio perché quei giocattoloni sovradimensionati dentro cui infilarsi costituiscono un’enorme, duplice possibilità: ludica per i bambini ed estetica per un paesaggio urbano in costante mutazione: già nel 1977, Renzo Piano e Richard Rogers non ebbero bisogno di particolari scuse infantili, per trasformare il Centre Pompidou in una specie di enorme scivolo trasparente. In una società dove adulti e bambini hanno gli stessi consumi culturali (i film Pixar, i romanzi cross-over, i fumetti e gli anime), l’architettura colorata di un parco giochi può costituire non solo, come suggerirebbe un esperto di politiche sociali, un “luogo di aggregazione”, ma anche un’occasione di portare nel paesaggio il gusto contemporaneo del design d’interni, e di trasformare in elemento d’arredo urbano lo stato d’animo infantile di uno strato sempre più grande di società.

Il parco-skate, ad esempio, con i suoi muri coperti di tag, e il suo target né bambino né adulto, si pone a metà strada tra lo scivolo e la panchina quale esempio di cross-over nell’architettura d’esterni. Con le sue pipe sinuose, fa anche da armonizzatore di forme, riappacificando il grande complesso residenziale monoblocco con la vecchia ferrovia e l’area-cani. Le attrezzature dei piccoli invece, per lo più prive di inventiva, ravvivano le aree verdi con colori brillanti solo fintanto che gli agenti atmosferici non li trasformano in precoci sintomi di degrado, dove albergano volentieri gli adolescenti, magari dopo averli sfasciati e imbrattati.

In Francia, in molte aree verdi, e perfino agli autogrill, ci si può sorprendere dell’originalità delle attrezzature da gioco, e restare a lungo a immaginarne l’utilizzo. Carrucole, casette pensili, giochi di equilibrio, stazioni di atletica, giostre per disabili, altalene per più persone, led notturni. I giochi, come indica la segnaletica, sono sempre divisi in due target, 2-6 e 7-11, fascia d’età che in Italia non gode di alcuna area dedicata, tanto che, per noia e rabbia, finisce prevalentemente per vandalizzare i giochi dei più piccoli.

Nonostante le archistar si occupino da anni di colorare bidonvilles sudamericane, in Italia il messaggio non è ancora passato

Ho fatto un giro tra le aree-gioco di Milano e Torino, in centro e in periferia, e ho concluso che gli elementi componibili della Kompan, azienda danese, pur essendo in serie, sono tra i più stimolanti sul mercato. In Italia, si trovano per esempio nel parco del Valentino, a Torino, sul Lungo Po, e permettono una quantità di usi diversi dal solito, con una prevalenza per l’arrampicata su piani rigidi di diversa inclinazione o su piramidi di corda. Nei casi meno azzeccati, come quello di un incongruo scivolo-razzo in via Cesare Cesariano, uno slargo che pure fa del suo meglio per sdrammatizzare il cemento con la street-art, strutture esteticamente attraenti non si preoccupano affatto di risultare giocabili, presentando grossi difetti d’uso, addirittura pericolosi per gli utenti.

Di recente, a Milano, nel discusso quartiere multietnico di via Padova, l’accademia d’arte digitale Naba ha tentato di vivacizzare le aree comuni di un grosso complesso di case popolari, vantando l’operato sui social network con montaggi molto ad effetto del lavoro svolto dagli artisti. Ho visitato il sito a neanche un mese da quando era stato così ben pubblicizzato, e non ho trovato nulla più di qualche panca variopinta, delle maglie di corda fluo tese come amache tra le panchine e qualche patetico ricordo smunto dei disegni tracciati a terra.

Andando alla ricerca dei rivenditori di arredi urbani online, emerge che le attrezzature di gioco, vendute da siti che commerciano anche in bidoni dell’immondizia e panche, sono considerate più prossime all’asfaltatura e alla recinzione, che all’architettura e alla pedagogia, svuotando la progettazione delle stesse di qualsiasi aspetto estetico e didattico. Di recente, lo studio di Renzo Piano ha preso l’incarico di valorizzare una zona molto popolare di Milano situata tra il Giambellino e via Lorenteggio, all’altezza del mercato comunale e della biblioteca rionale di via Odazio. L’area indicata comprende anche ampi spazi verdi, ora mestamente occupati da consunte altalene e cavallucci di legno.  Nonostante le archistar si occupino da anni di colorare bidonvilles sudamericane, in Italia il messaggio non è ancora passato, e quello del Giambellino è un raro caso di (speriamo) approccio fantasioso all’intrigante sfida sociale delle periferie, e soprattutto dei suoi bambini.

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Il mondo è pieno di esempi virtuosi di playground d’autore.  In Giappone, il ricorso alla terra e all’acqua per i parchi divertimento è già in voga dagli anni Novanta, quando l’artista Isamo Noguchi, nel suo studio “Sculpted Landscapes”, ideò una serie di playground per la città di New York basati sul gioco all’interno di grosse sculture. A Tokyo, c’è lo Showa Kinen Park di Fumiyaki Takano, un paesaggio collinare irrorato a intervalli irregolari da una sorta di macchina per la nebbia, che ne muta di continuo l’aspetto in modo imprevedibile. Imprevedibile, come dovrebbe essere lo sfruttamento dello spazio pubblico da parte dei bambini. Sarebbe sbagliato pensare, comunque, che il problema risieda tutto nella modularità degli elementi o nell’utilizzo dei materiali sbagliati.

Alejandro Aravena, che ha appena ricevuto il Premio Prtizker 2016, ha progettato il  di Santiago del Cile, sul fianco della collina di San Cristòbal: un fantasioso treno di tanti (banali) scivoli, che seguono la pendenza della collina e fanno da griglia per i riquadri di terra piantumati tra l’uno e l’altro.  L’Imagination Playground, di David Rockwell è composto da grandi blocchi di schiuma polimerica di tante forme e dimensioni (quindi modulari), che possono essere incastrati in infiniti modi per creare il paesaggio desiderato dal bambino in quel momento. Il progetto danese dello studio Kaptein Roodnat, non è fatto d’acqua e terra e altri amici della natura, ma di acciaio tubolare. Nonostante ciò, è un’invenzione geniale, divertente e stupenda da vedere: un lungo tubo colorato che si snoda senza interruzione per metri e metri nel cortile di una scuola dell’Aia, prendendo le forme più strane, tra le quali anche porte da calcio, canestri, dondoli, scale, un palcoscenico.

L’idea alla base di tutti questi parchi è, naturalmente, quella di sviluppare (per quanto possiamo essere allergici alla parola) la creatività, lasciandosi del tutto alle spalle il vecchio Q.I, responsabile di suggerire il solo e corretto utilizzo di un’attrezzatura, e di certo più in voga quando apparve il primo parco giochi di Milano, nei pressi della Triennale, nel 1936. Nemmeno l’estetica è tutto. In Danimarca, già del secolo scorso, si provava e si riusciva a fare qualcosa di più ardito sul piano del coinvolgimento sociale: Aldo van Eyck trasformava angoli di strade dimenticati e altri lotti abbandonati in parchi giochi in stile modernista. Qualcosa di simile, avvenne in Europa con le aree gioco ricavate negli spazi ridotti a macerie dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Non erano propriamente belli, ma i ragazzini ne andavano pazzi.

Questo febbraio, in corrispondenza del Super-Bowl nella Bay Area di San Francisco, un brand di due giovani start-upper italiane, Timbuktu Colours, che di professione non sono né architette né designer, inaugurerà le sue 3 prime play-areas nelle zone più degradate della baia, ricavate proprio da ex-parcheggi e altre aree abbandonate. L’idea non è quella di costruire un parco giochi che diverta la comunità per qualche anno, ma di fornire alla comunità gli strumenti per trasformare gli spazi urbani dismessi in ciò di cui la comunità ha voglia e bisogno in quel momento. La novità, dunque, è la co-progettazione con gli abitanti di tutte le età, che nel tempo di un week-end saranno guidati a scovare i colori nascosti in mezzo al degrado del quartiere, e a riprenderli in un grande mosaico, grazie a stencil tipo Tangram e all’asphalt painting. Il pay-off del progetto, volto anche a combattere l’obesità infantile negli USA, è “Play 60 – Play Everywhere”, cioè gioca almeno 60 minuti al giorno all’aria aperta, e appropriati creativamente di ogni spazio, anche del più brutto, qualsiasi sia il tuo background di provenienza.

In qualche modo, il concetto alla base di Timbuktu Colours è imparentato con quello espresso da Gilles Clément nel Manifesto del terzo paesaggio, un testo del 2007 alla moda tra i paesaggisti nord-europei. Clement sostiene che tutti i luoghi abbandonati dall’uomo (la natura selvaggia, ma anche le aree ex-industriali o le aiuole spartitraffico) sono conservatori della bio-diversità, in quanto si autogestiscono.  Anche l’uomo dei nuovi playground interattivi è un po’ come la natura che riconquista gli spazi urbani: si autogestisce, abbellisce spazi dimenticati, richiede scarso intervento pubblico, trova soluzioni all’insegna della diversità e dell’innovazione, non si lascia dettare da nessuno le regole del suo divertimento.

Nelle immagini: il Diana Memorial Playground di Londra e lo Showa Kinen Park di Tokyo (Wikimedia Commons).