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Niente cinema d'estate? Fortuna che ci sono le serie tv: ecco quelle da non perdere e scoprire (al netto del finale di Breaking Bad).

di Federico Bernocchi

Ma noi che abbiamo quella malattia per cui dobbiamo vedere almeno due o tre film al giorno, d’estate come diamine facciamo a sopravvivere? Vi ricordate di quel periodo buio in cui si voleva lanciare il blockbuster estivo? Basta con scarti di magazzino in sala a partire da giugno in avanti! Basta con filmacci horror di quattro anni prima, doppiati da gente con evidenti difetti di pronuncia e poi buttati in qualche sala di periferia nell’indifferenza più totale! E quindi s’è pensato di fare come gli americani e tentare di far andare la gente al cinema d’estate.

Il problema rimane: ma noi cosa cavolo facciamo da metà giugno a fine agosto? Meno male che c’è la televisione

S’è cominciato con il primo Spider Man di Sam Raimi nell’ormai lontano 2002 e da allora ogni anno si punta su qualche titolo forte da far uscire quando ormai preferiamo passare le nostre serate ai giardini a gustarci le granite piuttosto che in sala. Certo, c’è da dire che i multisala hanno il pregio di avere un’aria condizionata migliore di quella presente nei supermercati, ma non è comunque una ragione sufficiente a spingere le grandi masse al cinema. Si tratta semplicemente di una questione di abitudine: se per noi italiani il momento magico per andare in famiglia al cinema è il Natale, per gli americani è l’estate. Tutto qui. Per esempio: la settimana prossima esce da noi l’imperdibile Body Language, un film olandese del 2011 pensato per strizzare l’occhio ai vari film danzerecci come la saga di Step Up, interpretato da uno che si chiama Lorenzo van Velzen Bottazzi. Certo, la settimana successiva si tenta il colpaccio con Kick Ass 2, ma ho come l’idea che si tratti comunque di un titolo che porterà al cinema non più di una quindicina di appassionati. E quindi il problema rimane: ma noi cosa cavolo facciamo da metà giugno a fine agosto? Meno male che c’è la televisione.

Grazie a Netflix abbiamo potuto appassionarci a Orange Is The New Black, serie creata Jenji Kohan, già mente di Weeds, una delle più belle sorprese della stagione

Negli Stati Uniti d’estate non solo escono i film, ma escono anche le nuove serie televisive. Quest’anno per la prima volta la proposta televisiva s’è moltiplicata e anche noi possiamo finalmente trovare qualcosa di interessante da vedere. Tralasciando il fatto che l’11 di agosto, mentre tutti noi saremo in spiaggia, presumibilmente distanti da una connessione internet degna di questo nome, parte il rush finale di Breaking Bad (fatto che mi fa tranquillamente meditare di non andare al mare, per godermi la conclusione dell’epopea del vecchio Heisenberg), sono iniziate alcuni nuovo show molto interessanti. L’11 di luglio grazie a Netflix – servizio di steaming on demand che quest’anno ci ha permesso di godere di titoli come House of Cards e la quarta attesissima stagione di Arrested Development – abbiamo potuto appassionarci a Orange Is The New Black. La serie, creata Jenji Kohan, già mente dietro al successo di Weeds, è stata una delle più belle sorprese della stagione. Si tratta dell’adattamento del libro di Piper Kerman Orange Is the New Black: My Year in a Women’s Prison. Una piccola parentesi: la Kerman è una scrittrice statunitense che a partire dal 1993 ha riciclato soldi provenienti da traffici di droga. Arrestata nel 2004, ha scontato tredici mesi nel carcere di minima sicurezza di Danbury, in Connecticut. La serie è un brillante ibrido tra comedy e drama, con elementi presi in prestito dai vecchi W.I.P, acronimo che un tempo indicava un genere cinematografico d’exploitation ormai totalmente abbandonato: il Women in Prison. Certo, in quei vecchi film c’erano violenze e abusi di ogni genere, mentre qui le cose sono decisamente più leggere e virate verso la commedia, ma il tema è quello. La protagonista è la bella Taylor Schilling e al suo fianco ci sono (ovviamente) molte attrici tra cui citiamo almeno Laura Prepon, ma anche una coppia di uomini come Jason Biggs e Pablo Schreiber, che qui sfoggia un baffo da antologia.

L’idea di rifare una serie gialla scandinava non è nuova, visto che al momento s’è appena conclusa la terza stagione di The Killing, versione a stelle e strisce del danese Forbrydelsen

Su FX il 10 luglio, in contemporanea con l’Italia, è partito anche The Bridge. Si tratta di una serie remake di Bron/Broen, show del 2011 prodotta a metà strada tra la Danimarca e la Svezia. La storia era questa: sul ponte di Øresund, collegamento tra la Svezia e la Danimarca, viene trovato un cadavere tagliato esattamente a metà. Sulle tracce dell’assassino si metteranno una detective svedese con un disturbo della personalità e un detective danese stanco e disilluso. L’idea di rifare una serie gialla scandinava non è nuova, visto che al momento s’è appena conclusa la terza stagione di The Killing, versione a stelle e strisce del danese Forbrydelsen. Ma se in The Killing si tentava di rispettare esteticamente l’originale, piazzando maglioni pesanti e dalle fantasie improbabili alla protagonista Mireille Enos e ambientando il tutto nella grigissima e piovosa Seattle, per The Bridge s’è deciso di fare qualcosa di più articolato. Il rapporto conflittuale tra Svezia e Danimarca è diventato, con tutte le conseguenze del caso, quello tra Stati Uniti e Messico. Da una parte dunque abbiamo la bella texana Diane Kruger, dall’altra quel grande attore che è Demián Bichir. The Bridge, pur non essendo un prodotto destinato a cambiare le sorti della televisione, funziona e soprattutto è apprezzabile per lo sforzo che è stato fatto per adattare la storia originale in tutt’altro contesto. La cosa è talmente interessante che a quanto pare sta per partire The Tunnel, ulteriore remake ambientato a metà strada tra Francia e Inghilterra. In questo caso le indagini partono dal ritrovamento del cadavere di un politico nel Tunnel della Manica.

Ray Donovan è una specie di Wolf di Pulp Fiction: è colui che mette a posto i problemi in una Hollywood fatta di attoroculi e attricette inseguiti dai soliti problemi

A fine giugno invece, su Cbs, è partita la prima stagione di Under The Dome, drama tratto dal romanzo di Stephen King, uscito in Italia con il titolo di The Dome. La serie, partita poi da noi il 14 di luglio, è un racconto corale: al centro della storia, la piccola cittadina di Chester’s Mills nel Maine. La città viene letteralmente tagliata fuori dal mondo da una gigantesca cupola che cade, apparentemente senza alcuna spiegazione, dall’alto. C’è un fuori e un dentro la cupola: c’è chi sta dentro e lotta disperatamente per uscire da questa bizzarra prigione, e chi invece sta fuori e vorrebbe invece entrare. All’interno della cupola dopo poco i rapporti tra le persone tendono ad implodere. Ci sono quelli che tentano di mantenere l’ordine e coloro che invece dano spazio al proprio lato oscuro, cedendo inevitabilmente alla pazzia. Lo spirito kinghiano è rispettato molto più che in altri film tratti da Re del Terrore e, anche se la serie è un onesto quanto innocuo divertissement, si finisce per rimanere affascinati da questo insolito racconto d’assedio. Forse la confezione è un po’ troppo patinata, ma se cercate un riempitivo per i vostri pomeriggi estivi passati in città, Under The Dome potrebbe fare al caso vostro. Il creatore è Brian K. Vaughan, fumettista e sceneggiatore già responsabile di alcuni episodi di Lost e nel cast c’è spazio per Dean Norris, il cognato di Bryan Cranston nel già citato Breaking Bad, e per la bella Natalie Martinez, già vista in End of Watch e in Death Race. Concludiamo con quello che per ora è la serie che promette meglio tra tutte quelle citate: Ray Donovan. Lo show di proprietà del canale Showtime è stato creato da Ann Biderman, già autrice di Southland e vincitrice di un Emmy Awards per una puntata di NYPD Blue. Parla chiaro il cast: come protagonista c’è il sottovalutato Liev Schreiber, una delle facce da duro dal cuore tenero più belle degli ultimi anni, e al suo fianco fanno bella figura dei veri e propri fenomeni del calibro di Jon Voight, Elliot Gould e Eddie Marsan. Ray Donovan è una specie di Wolf di Pulp Fiction: è colui che mette a posto i problemi in una Hollywood fatta di attoroculi e attricette inseguiti dai soliti problemi. Prostitute morte nel letto dopo nottate a base di sesso e droga, stalker, dipendenze di vario tipo e conti in sospeso con gente che è meglio non incrociare per la propria strada. Ray Donovan attraversa tutto questo con l’indifferenza e l’impassibilità di chi le ha già viste tutte e s’è già sporcato troppe volte le mani per farsi prendere dai rimorsi di coscienza. A questo si aggiunge un’intricata storia famigliare che sembrava essere sepolta e che invece inaspettatamente ritorna a galla, portandosi dietro tutta una serie di problemi non da poco. Televisione per maschi a cui piace giocare a fare i duri, scritta da una donna che è ancora più dura, ma che riesce a dare spessore ai propri personaggi grazie a due battute di sceneggiatura. La storia è decisamente bella e, anche se il pilota evidenzia più di un problema dal punto di vista della messa in scena e della regia, è lecito aspettarsi qualcosa di grosso. Se siete tra quelli che passano le giornate estive in città a guardare le foto postate su Facebook postate dai vostri amici mentre si divertono in spiaggia, queste potrebbero essere delle valide alternative.

 

Immagine: una scena tratta da Ray Donovan (Showtime)