Attualità

Fargo, la serie

Arriva la serie ispirata al film dei fratelli Coen: la stessa America bianca, vuota e violenta con un cast esagerato e un racconto diverso dal solito, come fosse un lungo film infinito.

di Federico Bernocchi

Hbo non perde tempo. Appena terminata la prima folgorante stagione di True Detective, il canale di proprietà della Time Warner ha già messo in programmazione la quarta season di Game of Thrones, suscitando ovunque fenomeni di isterismo. Apro subito una piccola parentesi: in Italia, dopo un lungo periodo in cui si sono programmate le serie televisive con ritardi di anni rispetto all’originale, esasperando gli spettatori che spesso si sono votati al lato oscuro del download illegale, forse qualcosa sta cambiando. Sky s’è fatta furba e, grazie al nuovo canale Sky Atlantic, tallona gli Stati Uniti con solo tre giorni di ritardo. Ma torniamo negli Stati Uniti. Mentre Hbo spadroneggia – non solo per quanto riguarda gli ascolti, soprattutto a livello qualitativo – agli altri canali non resta che arrancare. O per lo meno tentano di arginare il danno. Al momento gli unici che sembrano essere in grado di dire la loro sono quelli di FX. Da poco più di una settimana infatti, il canale della Fox ha fatto partire uno degli show più attesi dell’anno: Fargo (trailer), la serie televisiva ispirata all’omonimo film dei fratelli Coen del 1996 vincitore di due premi Oscar. Il pilota, oltre ad essere stato accolto più che positivamente dalla critica, ha registrato dei buonissimi ascolti. È stato calcolato che tra la prima messa in onda e le successive repliche sono stati in ben 4.150.000 a sintonizzarsi su FX. Un ottimo risultato che, ancora una volta, ci fa capire come prodotti di questo genere siano in grado di portare la televisione ad essere quasi più incisiva del cinema. Non più solo fughe di attori, registi o sceneggiatori dal grande schermo in cerca di maggiore libertà espressiva; qui si parla di franchise legati a titoli cinematografici che hanno evidentemente avuto un forte potere evocativo sul pubblico.

C’è anche qui un’America marginale, poco raccontata. C’è una calma, una stasi, resa ancora più insopportabile dalla neve che copre qualsiasi cosa

Poco tempo fa è stato Robert Rodriguez a portare un suo film sul piccolo schermo. A metà marzo è partita su El Rey Network From Dusk Till Dawn: The Series, show che prende spunto dal vecchio Dal Tramonto all’Alba, pellicola anche questa curiosamente datata 1996. Rodriguez, che non è certamente uomo di cinema dai gusti raffinati, ma che anzi continua imperterrito nella sua spasmodica ricerca di elevare l’exploitation più becera a precisa cifra stilistica, ha operato una scelta precisa: questa sua nuova avventura, da lui creata, prodotta, sceneggiata, spesso diretta, e in onda sul proprio canale, è fondamentalmente una versione lunga del suo film originale. Lo script del film di partenza è stato semplicemente dilatato e diviso in ben dieci episodi. In aggiunta sono stati poi fatti confluire nella serie gli elementi più azzeccati dei due sequel, Dal Tramonto all’Alba 2 – Texas, Sangue e Denaro del 1999 e Dal Tramonto all’Alba 3 – La Figlia del Boia dell’anno successivo, ma il discorso non cambia di molto. Si tratta di una versione più lenta e più “pulita” del film originale, evidentemente pensata per un pubblico giovane, che forse all’epoca non prese in considerazione il film. C’è anche la possibilità di voler vedere tutto questo come l’ennesimo un regalo per tutti coloro che non vedono l’ora di poter contare i gradi di separazione tra Rodriguez e Quentin Tarantino. From Dusk Till Dawn: The Series insomma non è di certo tra le cose più esaltanti della stagione, ma è comunque un esperimento interessante. Per una lunga serie di ragioni.

Un cast straordinario con il sempre più bravo Martin Freeman e un redivivo Billy Bob Thornton mentre in piccolo ruoli si sono visti Bob “Better Call Saul!” Odenkirk e la brava Allison Tolman

In primo luogo, come già detto, si porta in televisione il Cinema. Di fatto si inverte un processo produttivo che dura da decenni. Non è più lo show che alla sua conclusione, o una volta che sopraggiunge l’effetto nostalgia, viene premiato con l’ingresso nel dorato mondo della celluloide ma l’esatto opposto. Basta con i film di Sex And The City, di X-Files, di Veronica Mars. Basta – forse – anche con il recupero di vecchie glorie come 21 Jump Street o l’A-Team. Oggi si preferisce prendere un film e immergerlo nelle regole televisive. Ed è in questo modo che nasce l’idea di Fargo per la televisione. Produttivamente le cose sono andate in questo modo: nel 2012 i Coen firmano un accordo con la Fox e diventando produttori esecutivi. Altra parte produttiva è affidata alla Metro Goldwyn Meyer che detiene i diritti della pellicola. Si mette insieme un cast straordinario, che può vantare nei ruoli principali un sempre più bravo Martin Freeman e un redivivo Billy Bob Thornton (veramente: perché non lo vediamo più spesso?), mentre in piccolo ruoli si sono visti Bob “Better Call Saul!” Odenkirk e la brava Allison Tolman. La serie viene poi affidata a Noah Hawley, già firma dietro qualche episodio di Bones e del curioso film The Alibi, che ne scrive la sceneggiatura. L’idea è questa: il film originale dei fratelli Coen rimane solo ed unicamente un’ispirazione, un punto di partenza. C’è anche qui un’America marginale, poco raccontata. Luoghi distanti da quelli che siamo abituati a vedere in sala: siamo in una piccola e inutile cittadina del Minnesota, dove la preoccupazione principale della gente è spalare l’ingresso del proprio garage o massaggiare il prosciutto per fare bella figura con gli ospiti a cena. C’è una calma, una stasi, resa ancora più insopportabile dalla neve che copre qualsiasi cosa e cancella ogni traccia. C’è lo stesso senso del grottesco, lo stesso umorismo nero. E la stessa violenza, pronta ad esplodere da un momento all’altro e a contagiare tutto quello che c’è attorno. Ma la storia è totalmente differente. Ovviamente non mancano piccole strizzatine d’occhio all’originale e il campo d’azione è sempre il noir ma il tutto va in una direzione diversa. L’idea dello showrunner è quella di realizzare una serie autoconclusiva in dieci episodi. Una scelta che ci riporta all’inizio del nostro racconto, ovvero al già citato True Detective.

Fargo, come per l’appunto True Detective, mira ad essere più che una serie un lungo film di dieci ore. Questo è un meccanismo narrativo differente, che in qualche modo cambia le regole del gioco

L’altra nuova grande tendenza che interessa le serie televisive di quest’ultimissima generazione è quella di fregarsene sostanzialmente delle regole della serialità. Fargo, come per l’appunto True Detective, mira ad essere più che una serie un lungo film di dieci ore. Questo è un meccanismo narrativo differente, che in qualche modo cambia le regole del gioco. Lo spettatore si affeziona ovviamente agli attori o a determinate caratteristiche dello show che ritrova di settimana in settimana, ma non ha più gli appigli classici della serie tv canonica. Entra in un mondo di cui conosce le regole e si limita ad assistere a delle storie che in quel mondo prendono vita e vanno poi ad esaurirsi. Volendo trovare un autore che ha in qualche modo precorso i tempi di questa nuova tendenza non possiamo non citare David Simon, autore del mai troppo citato The Wire.  Questa vecchia serie divisa in cinque stagioni minava le basi della serialità televisiva non individuando un vero e proprio protagonista ma mettendo in scena un racconto estremamente corale, dove i personaggi potevano morire da un momento all’altro. Anche in quel caso era possibile dire: un film di 50 ore circa dove l’elemento più importante – il vero protagonista – era la città di Baltimora. Fargo sembra essere il prodotto finale di questa lenta evoluzione: un lungo ma isolato racconto di un mondo che andremo a scoprire volta per volta, puntata in puntata. Sempre sullo stesso canale.

 

Immagine: una scena della serie Fargo (FX)