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Come Ralph Lauren è diventato uno dei marchi più rubati di sempre

Negli anni Ottanta a Brooklyn tutti vestivano Lee e Nike, ma era soprattutto un altro marchio a essere il più ambito del borough newyorkese: Polo Ralph Lauren. Era un simbolo associato alla classe medio-alta, ben educata, preppy, e comunicava uno stile da Upper East Side, Ivy league, scuole private, lezioni di golf e tennis. Come racconta il Guardian, era anche il brand di abbigliamento più rubato: a metà degli anni Ottanta c’erano infatti due gruppi di Brooklyn che terrorizzavano i grandi magazzini di Manhattan – come Bloomingdales e Barneys – per fare razzia di abiti Ralph Lauren: la United Shoplifters Association e Ralphie’s Kids.

Addirittura, dopo i “colpi” le due gang si derubavano a vicenda. Le schermaglie sono andate avanti fino a un giorno del 1988, quando le due sigle hanno deciso di incontrarsi a Times Square per fondare un’unica associazione: Lo Life. «Arriviamo tutti da famiglie disfunzionali. Io sono cresciuto in una casa popolare e i miei genitori erano tossicodipendenti: non avevamo né lavoro né soldi» dice al quotidiano inglese Thirstin Howl III, uno dei primi Lo Lifers.

Ralph Lauren

«In quel periodo la cultura hip hop stava iniziando a mescolarsi con la moda» dice Tom Gould, un fotografo neozelandese che ha iniziato a interessarsi alla gang nel 2010. La musica era diventata un veicolo: rapper come Raekwon e Grand Puba diventavano famosi, e con loro i marchi che indossavano. Nel 2009 Thirstin Howl III ha incontrato Gould, e insieme hanno deciso di pubblicare Bury Me With the Lo On, un libro sulla relazione socioeconomica tra i neri di New York e il marchio Ralph Lauren: «Le persone credono erroneamente che fossimo conosciuti solo per la Polo. In realtà rubavamo di tutto, ma quella era la marca legata allo stato sociale più alto, sapeva di ricchezza. Le persone potevano venire a rubarti in casa e spararti per avere una maglia» racconta Howl.

La tuta da sci del marchio era diventato l’oggetto più ricercato: gli era stato affibbiato il nome di “suicide jacket”: in parte perché veniva utilizzato per sciare fuoripista, ma – soprattutto – perché le gang newyorkesi avrebbero letteralmente ucciso per averlo. «Mi hanno sparato ed accoltellato per questo motivo, ma è successo a tutti» spiega Howl. 

Immagini: Getty Images e Thirstin Howl III