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Zara ha cancellato una sua campagna pubblicitaria accusata di offendere i morti di Gaza

La nuova campagna promozionale di Zara si intitola (a questo punto sarebbe più corretto usare il verbo all’imperfetto, però) The Jacket, dedicata a una linea di giacche della serie Atelier. Protagonista la modella Kristen McMenamy ritratta in mezzo a quelle che sembrano essere macerie: in una foto McMenamy porta in spalla un manichino avvolto in una specie di sudario bianco, in un’altra è in piedi dentro una “cabina” di legno che ricorda moltissimo una bara, tutt’attorno manichini a cui mancano le braccia e pezzi di un muro bianco che pendono dal soffitto. Subito dopo la pubblicazione delle immagini sui profili social di Zara, moltissimi utenti hanno invitato a boicottare il brand: le foto di The Jacket fanno venire in mente la Striscia di Gaza, le case fatte a pezzi dalle bombe, i cadaveri avvolti in sudari di fortuna, le bare sparse per le strade. «Non è possibile che non sia stato fatto apposta», ha scritto l’artista palestinese Hazem Harb in un post Instagram. L’hashtag #boycottzara si è rapidamente diffuso su tutte le piattaforme.

Come sempre in questi casi, a nulla sono servite le spiegazioni del colpevole. Zara ha rimosso tutte le fotografie della campagna The Jacket dal suo sito e dai suoi social, ma ormai era troppo tardi e l’accusa di aver fatto del genocidio uno strumento pubblicitario era stata già condivisa da centinaia di migliaia di utenti. In un post su Instagram il brand ha spiegato che The Jacket era parte del rinnovamento dell’immagine del marchio programmata da tempo: «La campagna è stata pensata a giugno e scattata a settembre», si legge in questo post. Che prosegue poi con un chiarimento: la guerra in Medio Oriente ovviamente non c’entra nulla con tutto questo. «Nelle fotografie ci sono sculture non finite all’interno dello studio di una scultrice, il loro unico scopo era mostrare capi d’abbigliamento artigianali in un contesto artistico». Il messaggio si chiude con delle scuse a tutti coloro che si sono sentiti offesi a causa di un fraintendimento che non può tuttavia far dubitare del rispetto che il brand ha «nei confronti di tutti».

Anche questo post è stato duramente criticato. Tutti hanno sottolineato che sì, si sa che le campagne pubblicitarie dei brand sono frutto di lunga e attenta programmazione. Il punto, però, hanno sottolineato gli utenti nei commenti, è la decisione di far uscire comunque queste fotografie, nonostante quello che sta succedendo dal 7 ottobre in Israele e nella Striscia di Gaza. Una questione di sensibilità scarsa o assente del tutto, un episodio per certi versi simile a quello in cui Balenciaga fu accusata usare simbologia satanista e incitare alla pedofilia in una sua campagna pubblicitaria (ne avevamo scritto qui). Altri hanno sottolineato che le critiche a Zara vengono anche dai precedenti dell’azienda. Due anni fa si era discusso molto di un litigio su quello che all’epoca si chiamava ancora Twitter in cui una delle senior designer di Zara, Vanessa Perilman, aveva risposto alla modella palestinese Qaher Harhash dicendo che «forse se la tua gente studiasse allora non farebbe saltare in aria ospedali e scuole di Gaza che Israele ha contribuito a costruire. […] Gli israeliani non insegnano ai loro bambini a odiare né a lanciare pietre ai soldati, come invece fate voi». C’è stato anche chi ha definito Zara un marchio «sionista», ricordando che il proprietario del franchise in Israele, Joey Schwebel, a ottobre del 2022 aveva organizzato un evento il cui ospite principale era Itamar Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit.