Musk, Bezos, Zuckerberg, Altman, Cook, Pichai: con il ritorno di Trump, i tech bro hanno svoltato a destra e deciso di prendersi il mondo.
Il capitalismo ha vinto quando ha capito che il nemico da sconfiggere non era né lo Stato né il comunismo, ma la memoria. Se avessimo ancora la memoria, basterebbe un piccolo sforzo per farla tornare al 2008, quando tutti quanti scoprimmo cosa succede quando un’azienda diventa too big to fail: succede che gli errori di pochi diventano i problemi di tutti, perché l’oligopolio è bello finché dura – almeno per gli oligopolisti – ma non può durare per sempre. Se avessimo ancora la memoria, ci ricorderemmo la lezione appresa nel 2008 e la sapremmo applicare anche in altre circostanze. La lezione era ed è: nessun settore industriale può prosperare, nessun libero mercato può esistere, nessun beneficio sociale, culturale ed economico può esserci dove esistono le aziende too big to fail. Vale per il settore assicurativo, per Fanny Mae e Freddie Mac. Vale per quello bancario e per Lehman Brothers. Vale anche per settori non altrettanto nevralgici nel sistema economico, ovviamente.
Facciamo un esempio, proviamo a immaginare: cosa succederebbe se l’industria dell’intrattenimento finisse per essere governata (l’uso del verbo non è casuale, ci torno) da una, due, massimo tre megacorporation, über imprese così too big too fail che al loro fallimento corrisponderebbe la scomparsa di un pezzo di mondo? La risposta a questa domanda la si trova aprendo la app di qualsiasi piattaforma streaming: succederebbe che anche stasera passeremmo ore a scrollare tra film e serie che sembrano tutti ugualmente brutti, tutti ugualmente dimenticabili, chiedendoci perché c’è così tanto e si trova così poco.
Tutto questo è già successo e succederà di nuovo
Netflix ha comprato Warner Bros. per 83 miliardi di dollari, o forse la comprerà o forse no, forse la comprerà Paramount per 100 miliardi o forse non se ne farà nulla, non è importante. È importante la possibilità che ci è concessa di assistere a questo spettacolo, di improvvisarci etologici e osservare il comportamento di questi immensi predatori che tutto hanno consumato del loro ecosistema, bestie fameliche alle quali ora resta un’unica possibilità di sopravvivenza: iniziare a divorarsi tra loro. Non è un evento insolito, nell’ecosistema che chiamiamo capitalismo. Non è un evento insolito neanche nell’industria dell’intrattenimento: le Big Five – Disney, Paramount, Sony, Universal e Warner Bros. – che si spartiscono il 70 per cento del mercato nordamericano e globale sono diventate tali di acquisizione in acquisizione, di fusione in fusione.
Sei anni fa, il 20 marzo del 2019, Disney comprava 21st Century Fox per 72 miliardi di dollari. Quattro anni fa, l’8 aprile del 2022, WarnerMedia acquisiva Discovery per 65 miliardi di dollari e ora vende metà di se stessa a Netflix perché in questi anni non è riuscita a trovare un modo di sopravvivere alle streaming wars e di appianare un debito che a oggi ammonta a 35 miliardi di dollari. Già all’epoca, prima nel 2019 e poi nel 2022, c’era chi diceva che questa storia non sarebbe andata a finire bene, che quello era soltanto l’inizio e che il peggio doveva ancora venire. In queste due settimane, la notizia dell’acquisizione di Warner Bros. da parte di Netflix ha portato paura e delirio, persino a un editoriale di Jane Fonda su The Ankler. Perché, viene da chiedersi. Perché stavolta la paura e il delirio e le altre volte invece no o comunque non altrettanto. La risposta più semplice è quasi sempre quella giusta, e in questo caso la risposta più semplice è: perché stavolta è diverso.
Per quanto Disney sia una megacorporation mostruosa come lo sono tutte le megacorporation, quando ha comprato 21st Century Fox nessuno ha pensato (sbagliando, ovviamente) che ne sarebbe venuta una minaccia immediata e tangibile all’industria dell’intrattenimento. Perché Disney è una parola che ha moltissimi significati diversi e solo uno di questi è piattaforma streaming. Disney+ è anche una delle tante piattaforme streaming che non funzionano granché bene (al 2025 vale la ragguardevole somma di 11 miliardi di dollari di perdite), quindi nessuno ha mai pensato che i film di 21st Century Fox dal 20 marzo 2019 sarebbero stati disponibili solo in streaming, solo lì.
Con Netflix e Warner Bros. è diverso, appunto. Perché Netflix vuol dire una cosa soltanto e cioè, limitandoci solo a due recenti esempi: House of Dynamite di Kathryn Bigelow distribuito in pochissime sale e per pochissimi giorni il 10 ottobre, per arrivare poi su Netflix il 24; Knives Out 3 arrivato nelle sale il 26 novembre in distribuzione limitata perché tanto il giorno importante era il 12 dicembre, quello in cui il film sarebbe finalmente diventato parte del catalogo Netflix. Due tra i titoli più attesi del 2025 di fatto non sono usciti al cinema, nonostante le proteste dei registi e degli attori e del pubblico e dei critici. Anche in questo caso, la risposta giusta è quella più semplice: è andata così perché a Netflix, semplicemente, non importa delle sale cinematografiche. Nelle parole di Ted Sarandos, co-Ceo dell’azienda: «Facciamo le distribuzioni limitate, dobbiamo farne un po’ per essere candidabili agli Oscar. Devono stare un po’ in sala, la cosa serve anche a finire sulla stampa». E tant’è, questo è, a questo serve il cinema in questo brave new world.
Concetti superati
Sarandos in questi giorni ha avuto un bel daffare a improvvisarsi nel ruolo di affezionatissimo avventore della sala. Tutto pur di far dimenticare quella volta in cui la verità gli scappò dalla bocca: era il 23 aprile di quest’anno quando diceva che i consumatori «vogliono guardare i film a casa. Gli studios e le sale si stanno scannando nel tentativo di conservare questa finestra di 45 giorni che non ha nulla a che fare con le priorità del consumatore». E ancora, sui registi: «Gente che è cresciuta pensando “voglio fare un film per lo schermo gigante e voglio che le persone vadano a vederlo e che il film resti in programmazione per due mesi e che la gente pianga e che ci siano i sold out… È un concetto superato». Stare a casa a guardare la tv è invece avveniristico, nel mondo nuovo di Sarandos.
Il motivo per il quale l’affare Warner Bros.-Netflix è stato una notizia così cattiva per così tante persone è perché ha esposto il potere e la conseguente arroganza (non che ce ne fosse bisogno, ma visto che la memoria non è più un’umana facoltà resta soltanto la ripetizione) di quelli che sono stati ribattezzati i tecnofeudatari. Non più capitani d’industria che cercano di prevedere i movimenti del mercato, ma membri di un’aristocrazia che pretende di esercitare il potere assoluto sul territorio, sia questo territorio una fetta di mercato da conquistare con i propri prodotti o una città da occupare per il proprio matrimonio o un governo da sterzare nella propria direzione. Addirittura decidere quali usi e costumi siano superati o superabili. In quelle parole di Sarandos si sente l’eco dell’ormai famigerato discorso di Peter Thiel a Libertopia, la conferenza annuale dei libertari d’America, nel 2010: «Sapevamo che non avremmo mai vinto un’elezione perché eravamo una sparuta minoranza, ma capimmo che forse il mondo si può cambiare unilateralmente, senza dover continuamente convincere e pregare e implorare persone che non saranno mai d’accordo con te, usando la tecnologia».
Una volta hanno chiesto a Sarandos se si sentisse in colpa per aver distrutto Hollywood: «ma noi Hollywood l’abbiamo salvata», rispose lui. Si chiederanno mai, questi broligarchi, questi tecnofeudatari, che ruolo hanno avuto nell’improvvisa obsolescenza di usi e costumi e nel vuoto che questa obsolescenza ha aperto? Probabilmente no, perché poi quel vuoto sono stati loro a riempirlo. D’altronde, tutti i colonizzatori giustificano le loro conquiste con l’arretratezza dei conquistati.
There is no alternative
A questo punto diranno i realisti e i pragmatici e i tecnottimisti: ma ha ragione Sarandos, cioè ha ragione il botteghino, i numeri dicono quello, noi pubblico vogliamo la merda e loro ci danno la merda. Prima o poi ci accorgeremo di essere stanchi anche di questi discorsi, di tutte queste pigre e ciniche reiterazioni del there is no alternative thatcheriano, dell’io sono inevitabile di Thanos. L’alternativa c’è e c’è sempre stata. Un tempo quelli come Sarandos ci avrebbero pensato due volte prima di lanciarsi in certe spericolate campagne di conquista perché sapevano che sul campo di battaglia avrebbero trovato agenzie regolatorie pronte a smembrarli, letteralmente e figurativamente. Un tempo quelli come Sarandos sarebbero andati a letto la sera dopo aver pregato Iddio che il governo di questo o di quel Paese non decidesse di allargare la finestra temporale prima della quale un film non può essere distribuito in home video, per proteggere l’industria cinematografica nazionale dalle prepotenze di una multinazionale. Magari il cinema andrebbe male lo stesso, ma almeno non ci toccherebbe star qui, costretti a prendere sul serio uno che dice che lui fa quello che fa per il bene di chi vive lontano dalle città e non ha un cinema vicino ma i film li vuole vedere lo stesso. Facile fare i cinefili a Manhattan, ha detto Sarandos. Magari il cinema andrebbe male lo stesso, ma almeno ci risparmieremmo un altro miliardario che fa i soldi per il bene dell’uomo qualunque.
L’alternativa c’è e c’è sempre stata, ma anche questa ce la siamo dimenticata. Un tempo, appunto. Quel tempo è superato, come dice Sarandos. Questo è il tempo dei tecnofeudatari e la migliore speranza che possiamo serbare è che Paramount, i sauditi, gli emiratini, il genero di Trump, un farabutto come Larry Ellison e compagnia comprante comprino loro Warner Bros. e tengano fede alla promessa di distribuire al cinema «almeno 30 film all’anno». Io nel 2008 avevo 18 anni, la lezione imparata all’epoca me la ricordo ancora e so che questo è solo l’inizio: per quanto possa sembrare impossibile, il peggio deve ancora venire.
Le infiltrazioni hanno danneggiato 400 documenti della biblioteca del Dipartimento delle antichità egizie, confermando i problemi che hanno portato i lavoratori allo sciopero.
