Stili di vita | Moda

Un’ora con Virgil Abloh

Nello studio itinerante del direttore creativo di Off-White.

di Silvia Schirinzi e Giorgio Di Salvo

Virgil Abloh (Nike)

Virgil Abloh è probabilmente uno fra i designer che meglio rappresentano l’attuale stato dell’industria-moda. Non è lo stilista-star come lo sono stati John Galliano o Tom Ford, e neanche quello ritroso à la Dries Van Noten o Christophe Lemaire, ma si colloca piuttosto a metà strada tra il collezionista colto di Louis Vuitton, Kim Jones, maestro delle collaborazioni e sdoganatore ultimo di Supreme, e il millennial kid Olivier Rousteing, che ha legato il glamour del suo Balmain alle Kardashian-Jenner regine di Instagram. È un direttore creativo, diremmo oggi, con una laurea in Ingegneria civile e una specializzazione in Architettura. È la mente dietro tutte le incursioni di Kanye West nel campo della moda, da Pastelle a Yeezy. Ha ridisegnato modelli-icona di Nike e Dr. Martens, sta lavorando a una mostra con il MCA Chicago [Museum of Contemporary Art, ndr] e si prepara a debuttare con una collezione di tappeti per IKEA. Perennemente in viaggio, non ha uno studio fisico (né lo vuole) e per Studio ha chiacchierato con Giorgio Di Salvo, designer e creativo milanese, amico e sodale di Virgil, fondatore e art director del brand culto United Standard.

Insieme hanno recentemente tenuto un workshop a Milano, da cui sono tratte alcune delle immagini di questo articolo, incentrato sulla collaborazione di Abloh con Nike, The Ten Icons, in cui il designer americano ha rivisitato dieci modelli classici del brand. Classe 1980, Abloh è originario di Rockford, in Illinois. Sebbene sia sempre abbottonatissimo sui termini del suo legame con West, ha raccontato spesso che la loro collaborazione è iniziata nel 2002, quando a ventidue anni si è ritrovato a capo del collettivo artistico Donda, che si occupava di tutto quello che riguarda l’immagine del rapper, dal merchandising agli artwork degli album fino alle linee di abbigliamento.

Nel 2012 lancia il primo marchio interamente disegnato da lui, Pyrex Vision, che dura poco più di un anno. Nel settembre del 2013 inaugura quindi Off-White™, il progetto che ne ha consolidato lo status di nuovo interprete dello streetwear di lusso. A convincerlo che fosse il momento giusto per fare il salto di qualità, e passare dalla community streetwear a quella del fashion, è stata una T-Shirt disegnata dall’allora direttore creativo di Balenciaga Nicolas Ghesquière (che oggi disegna la donna di Louis Vuitton), dove campeggiava la scritta “Join a weird trip” sull’immagine di una sfinge pixelata. Per Abloh, quello è stato il momento in cui le passerelle dichiaravano di voler abbracciare definitivamente l’estetica street e in cui lo stile che era stato fino a quel momento appannaggio esclusivo di alcune scene performative specifiche e molto geo-localizzate – dagli skater ai dj, da New York a Tokyo – diventava interessante anche per il cliente del lusso e, di conseguenza, per quello del fast-fashion.

Era il momento giusto di capitalizzare quel senso di appartenenza, insomma, il momento in cui lo streetwear diventava globale e non prerogativa esclusiva di quei pochi designer di culto cui Abloh è idealmente – e materialmente – debitore, cioè Raf Simons e Rick Owens. Ed è proprio in questa contingenza storica (ed economica) che bisogna leggere la rilevanza di Abloh nel panorama della moda internazionale, in quello sparpagliamento delle identità stilistiche dei marchi e nelle nuove, sfuggenti, categorie di consumatori, mai così affezionati alla loro volubilità.

Formatosi come designer negli anni in cui Kanye diventava Kanye (prima che quest’ultimo sorpassasse se stesso e arrivasse alla fase odierna, difficile da inquadrare a livello artistico e personale), oggi Abloh vanta numerosissime collaborazioni all’attivo e più di un milione di followers su Instagram (le due cose non sembrino separate). Dove Raf Simons sceglieva di rivestire i divani dei danesi di Kvadrat mentre favoleggiava di darsi alle ceramiche, Virgil Abloh ha scelto IKEA, il super marchio assoluto dei nostri giorni. Un’interdisciplinarietà che diventa dichiarazione d’intenti, semplificata abbastanza da poter piacere tanto «alla madre quanto al figlio teenager», come lui stesso ha egregiamente riassunto in un’intervista a Business of Fashion risalente al settembre 2016. Abloh, d’altronde, è fermamente intenzionato a trasformare il suo lifestyle di designer/dj/architetto/connoisseur che si muove continuamente per tutti gli angoli del globo in un marchio di fabbrica, un luogo ideale dove tutto si mescola e coesiste, che ci piaccia o meno: competenze, livelli, gusti. E finora, bisogna dirlo, gli sta riuscendo piuttosto bene.

 

Giorgio Di Salvo — Ciao Virgil. So che sei a Chicago e che stai lavorando a una mostra, giusto?

Virgil Abloh — Giusto. Sto lavorando con il MCA di Chicago a una mostra che inaugurerà nel 2019.

GDS – Tu viaggi moltissimo, ecco perché volevo iniziare chiedendoti cosa significa la parola “studio” per te.

VA – Per me quella dello studio è un po’ una sorta di metafora. Quando penso al mio, di studio, non mi vengono mai in mente quattro mura, dei begli arredi e una bella vita, diciamo così. Non ne ho uno di questo tipo e non lo vorrei neanche. È piuttosto qualcosa di astratto. Per me l’idea di studio è un gruppo di persone dalla mentalità aperta che quando le metti insieme, che sia in una chat di gruppo, in una casa o in una stanza d’hotel, si fanno venire un sacco di nuove idee, ispirandosi l’un l’altra. Quando penso al mio studio di Off-White™ penso a un gruppo di persone che lavora e si mescola insieme, a un gruppo di amici, che mi aiutano nel formulare idee creative.

GDS – Ogni volta che vedo le cose che fai, da Nike a Off-White™, non posso fare a meno di notare come il tuo approccio, che è di costruzione e decostruzione, sia fortemente influenzato dalla tua formazione di architetto. Come funziona il tuo processo creativo e quanto è influenzato dai tuoi studi?

VA – Sì, diciamo che è un po’ la mia cifra stilistica. Se parliamo poi di disegnare scarpe, diciamo che nel processo creativo convergono entrambe le anime della mia formazione, che sono l’ingegneria e l’architettura, cioè la costruzione e l’estetica, sono un po’ la mia mano e miei polpastrelli. Si tratta di una tensione tra due differenti attitudini mentali. Lavorare sulle scarpe mi riporta alla mente la cosa che preferisco dell’architettura e cioè la costruzione dei modelli. La maggior parte delle cose migliori in architettura nasce proprio da modelli – spesso provocatori – costruiti a mano. Le scarpe sono un po’ come un modellino architettonico, se ci pensi.

GDS – Quando abbiamo lavorato al workshop per Nike, siamo usciti parecchio in giro per Milano. Che idea ti sei fatto della città?

VA – Credo che oggi Milano sia la città più stimolante per tutti i giovani designer nel mondo. Davvero. Io viaggio molto, vado a Mosca, vado a Berlino e sappiamo che c’è questa sorta di romanticismo su quello che Berlino ha rappresentato nel passato per i giovani creativi, vado a Tokyo, a Los Angeles, eppure non sono mai stato in una città con una così alta concentrazione pro capite di persone che sono così impegnate nel diventare qualcuno. Credo che tra dieci anni leggeremo dei libri sulle storie di queste persone, anche su qualcuno che lavora con me. È veramente difficile, soprattutto nella moda, trovare persone così impegnate seriamente nel processo creativo. A Milano ci sono. Ogni dj, ogni fotografo, ogni magazine… Era qualcosa che una volta trovavi a New York e che ora non c’è più. C’era anche a Los Angeles, ma ogni volta che ci vado ora non trovo più quell’energia. Vorrei sapere come avete fatto, in realtà, capire da dove viene questa energia. Milano avrebbe bisogno di un ufficio marketing migliore! Un po’ come Chicago, che è la città da dove ti sto chiamando. Che cosa sa la gente di Chicago, cosa conosce della città? Non sa, per esempio, che è una delle città più importanti d’America dal punto di vista architettonico. Manca una comunità creativa, certo, ma io ci vivo ancora e la amo molto. È un po’ una città incompresa, se vuoi.

GDS – Quando parli di te stesso e delle persone che fanno il nostro lavoro, spesso dici che “siamo artisti”. Hai mai pensato se farai qualcosa oltre la moda, magari quando sarà un po’ più grande?

VA – Beh, guarda… proprio l’altro giorno ho dato questa risposta [a chi mi chiedeva cosa fai] «Vuoi sapere a quale movimento architettonico appartengo? Si chiama streetwear». Credo di essere interessato a come la nostra generazione mescolerà le cose insieme, anche in modo caotico. È così che troveremo nuove ibridazioni. Posso mescolare il design medico o quello delle macchine con la mentalità dello streetwear. È quello che sto facendo qui a Chicago, lavorando per il Moca. Quando penso agli artisti del passato, mi rendo conto di essere attratto di più da quelli che hanno rimesso in discussione in maniera radicale tutto il sistema. Beh, credo che quello che facciamo si possa chiamare “arte”. Voglio fare delle cose che siano l’incarnazione di un’idea e voglio vedere fino a dove può spingersi quella mano di cui ti parlavo prima. Voglio disegnare un aereo. Voglio disegnare un grattacielo. E voglio che queste cose siano considerate normali [per qualcuno che viene dalla moda, ndr] e non “avant-garde”.

GDS – Grazie Virgil. Quando facciamo qualcosa insieme per United Standard?

VA – Quando vuoi, molto volentieri, sarei onorato. Mandami un po’ di idee e iniziamo a lavorarci!