La sfilata di Dior era una delle più attese della settimana della moda di Parigi. Il figlio prediletto della moda contemporanea ha ampiamente rispettato le aspettative, non senza qualche intoppo, però.
In tempi come quelli che stiamo vivendo, l’esibizione di ricchezza e giovialità, gli eventi pubblici e gli after party – il corollario classico di ogni settimana della moda che si rispetti – sembrano, semplicemente, fuori luogo. In una intervista concessa a Interview questo settembre, la stessa Miuccia Prada ha affermato che l’esercizio della moda nella sua totalità è da riservarsi a tempi felici, perché quando «qualcuno sta male o ci sono guerre in corso, la moda è assolutamente irrilevante» . Se da una parte rimane comunque obbligatorio – con la sobrietà che l’occasione richiederebbe – mandare avanti un comparto economico che solo lo scorso anno in Italia ha generato poco meno di 100 miliardi di ricavi, con una flessione negativa del 3,5 per cento – la maggior parte dei designer dei giorni nostri, in questa specifica fashion week, sembra recalcitrante di fronte all’idea di immaginare dei vestiti che siano consapevoli del nuovo Medioevo che stiamo affrontando, preferendo rinchiudersi (per paura, comprensibilmente) in roccaforti dorate nelle quali la bruttura del presente non riesce ad arrivare. La moda però, non vive in uno spazio vuoto, ma riempie l’ecosistema storico e sociale del contemporaneo, bello o brutto che sia, a volte semplicemente registrandone le pulsazioni. Quando è benedetta da una visione, si immagina anche una via d’uscita da un tunnel sempre più asfittico.
Ed è dalla mancanza di luce, della necessità di ricercare, di nuovo, un bagliore di speranza, ritrovandolo nelle luminescenze erratiche delle lucciole, che parte Alessandro Michele per la sua nuova collezione di Valentino. L’idea delle lucciole è presa in prestito da Pier Paolo Pasolini: nel 1941, giovane studente della facoltà di Lettere di Bologna, invia una lettera ad un amico d’infanzia, raccontandogli del desiderio che in lui pulsa ancora, nonostante i tempi infausti. «Nella notte di cui ti ho parlato, abbiamo visto una quantità immensa di lucciole, che facevano boschetti di fuoco dentro boschetti di cespugli, e le invidiavamo perché si amavano, perché si cercavano con amorosi voli e luci», scrive Pasolini.
Dopo la scomparsa delle lucciole
Per lo scrittore, quelle apparizioni naturali sono sintomatiche della capacità testarda di quanti cercavano di resistere al buio del fascismo. Un ottimismo che poi gli mancherà 34 anni dopo, quando scriverà un pezzo per il Corriere della Sera (che si legge ancora, qui) nel quale sosterrà che, tramontato il fascismo militare, ne è sorto un altro, di diversa natura, che comporta una standardizzazione e un conformismo nel linguaggio e nei valori. Il pezzo, non a caso, si chiamerà “Dopo la scomparsa delle lucciole”.
Ed è impossibile non leggere in questi spunti un parallelismo con i tempi altrettanto bui che stiamo vivendo. L’angoscia che ci attanaglia sembra toccare anche Michele, creativo che, pur nei suoi magniloquenti barocchismi, da Gucci e poi da Valentino, si è sempre confrontato con il presente, a volte riuscendo addirittura a influire su come percepiamo i vestiti, e di come i vestiti ci aiutino a immaginarci nel mondo. Lo sforzo di questa collezione è nel privarsi, in maniera visibile, di tutti quegli orpelli di styling e quella firma stilistica così evidente, quasi totalizzante, che tante critiche hanno portato a questo suo nuovo corso. Le sovrapposizioni di strati di tessuto e cromie e motivi è ridotta al minimo; i gioielli sono decorazione visibile (le lucciole si traslano in ricami sulle cappe e sui blazer, o su maxi collane) ma sono lontani dai paramenti eccessivamente vistosi ai quali ci aveva abituato; le giacche con ricami geometrici in toni stendhaliani hanno un contrappunto sobrio nelle camicie bianche e nei pantaloni dalla linea dritta. Rimangono le cromie acide care al designer, i verdi lime dei top in pizzo e i blu Klein delle camicie in seta con maniche a sbuffo, così come i richiami al fondatore nei ricami floreali sulle giacche e nel rosso Valentino che appare su gonne a matita e bluse piumate, così come sulle decorazioni di abiti da sera, con scolli profondi eppure capaci di evocare un’eleganza sobria. Un esercizio che pare esser piaciuto a Giancarlo Giammetti, co-fondatore del brand insieme a Valentino Garavani, che ha ripostato su Ig il finale della sfilata definendo lo show “bellissimo”, pur nel suo essere drammatico.
A rapire l’attenzione degli utenti social è stata invece la presenza di Lana Del Rey, amica di lungo corso del creatore, sebbene poco avvezza a esercitare l’arte dei red carpet e dei front row delle sfilate (quasi ormai leggendaria la cerimonia dei Grammy Award del 2020, dove si presentò con un vestito che, come da sua stessa ammissione, aveva comprato al centro commerciale). Al braccio del marito Jeremy Dufrene e di sua sorella Caroline Grant, indossa un abito in chiffon lilla con maniche in pelliccia e fiocco a drappeggiare la vita.
Fugaci bagliori nelle tenebre
In passerella la silhouette è ben più essenziale, e rimanda a quegli anni ’40 nei quali il giovane Pasolini fantasticava sul desiderio in tempi dove ad essere predominante era solo la paura: le gonne a matita con spacco centrale si indossano con camicie in seta dai colli alti, decorate da davantini a contrasto, ingentilite da fiocchi; i blazer sono sfiancati, ad evidenziare il punto vita e si trasformano però in minidress. Il tono generale di questa sfilata fugge dagli eccessi e si rifugia nella moda come strumento attraverso il quale illuminare il buio, nella banalità del quotidiano, e non solo sotto le luci delle passerelle. Nel comunicato stampa diramato a seguito della sfilata, è lo stesso Michele ad affermare che è necessario ricercare, ora più che mai, «tracce di una bellezza che resiste all’omologazione, epifanie sensibili capaci di riconnetterci all’umano». Cercare, insomma, anche di resistere alla violenza verbale che infiamma gli scambi sui social media, argomento del quale ha anche parlato con un certo grado di sincerità nell’intervista concessa a WWD qualche giorno prima dello show. «Siamo diventati pericolosamente aggressivi, arroganti e prepotenti» ha detto. «Vorrei che il linguaggio diventasse meno denigratorio e che il mondo tornasse a essere gentile. Si può avere un dialogo sano anche con punti di vista diversi, ma in questo momento non ci sono né grazia né gentilezza».
Un lavoro di riduzione stilistica che è anche una messa a nudo, un’ammissione di fragilità quasi commovente in un mercato complesso che non premia quasi nessuno (Valentino compreso) e dove si finge da tempo una salute e una leggerezza che non si ha più. È lontano il 2015 festoso nel quale Demna e Alessandro Michele rivoluzionavano il mondo della moda (e anche allora, le critiche fluirono copiose), ma nessuno sembra esserne consapevole come lo stesso Michele. E però in fondo a quella consapevolezza sicuramente dolorosa, c’è un briciolo di speranza.
D’altronde, di fronte al cinismo del Pasolini della scomparsa delle lucciole, lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman rispose che quella profezia apocalittica poteva essere sconfessata. E sebbene «ci vogliano quasi cinquemila lucciole per produrre una luce pari a quella di una sola candela», come diceva lo stesso Huberman, dall’altra parte è necessario anche un occhio capace ancora di immaginare e desiderare, uno sguardo al futuro e al presente che rifiuti di abituarsi al buio e che riesca a scorgere segnali di speranza. Per questo motivo sul finale, i modelli escono, posizionandosi sulla passerella, con lo sguardo al cielo, alla ricerca di «fugaci bagliori nelle tenebre». L’orrore che stiamo vivendo come collettività non può in fondo essere negato, ma l’invito è a non arrenderci, nonostante tutto. Perché fin quando coltiveremo la speranza, per quanto inutile o poco realistico possa sembrare, la bruttura del presente non ci avrà ancora cambiato, e quindi, sconfitto. E sarà comunque un risultato del quale andare fieri.