Negli ultimi anni il Paese storicamente chiuso e orgogliosamente isolato è diventato una delle principali mete mondiali. Un’ondata che ha creato non pochi problemi alle sue città e ai siti di interesse turistico.
Questo articolo è tratto dal nuovo numero di Rivista Studio, intitolato “Gran Turismo”. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
«La felicità è reale solo se condivisa» scriveva prima di morire da solo, in autobus abbandonato, in una foresta dell’Alaska, Christopher McCandless, il viaggiatore raccontato da Jon Krakauer nel libro Into the Wild e interpretato da Emile Hirsch nell’omonimo film del 2007 diretto da Sean Penn che diede da pensare a molti di noi disadattati. Ricordo ancora quanto quel film emozionò me e alcuni miei amici quando lo guardammo insieme per la prima volta un po’ di anni dopo, e quanto entrò a far parte del nostro gergo quotidiano: «Non ne posso più, basta, io mollo tutto, saluto tutti, lancio il cellulare in un dirupo e faccio perdere le mie tracce, me ne vado into the wild», ci scrivevamo più o meno a cadenza settimanale. Per quanto ne so, nessuno di noi è riuscito a trasferirsi permanentemente in una foresta: i più audaci, al massimo, sono riusciti a cancellarsi dai social (non è poco: complimentissimi a loro). Into the Wild è la storia di un viaggio solitario senza ritorno, un suicidio sociale, un liberatorio addio alle regole della società: come San Francesco, il protagonista si spoglia di tutti i suoi beni e si affida a una natura che, però, alla fine, lo tradisce. La sua morte (di fame e ipotermia, forse anche avvelenamento per aver mangiato i semi tossici della pianta Hedysarum alpinum), ai nostri occhi, rendeva la sua scelta di vita ancora più impavida, tragica e affascinante. Christopher McCandless era una specie di martire, la sua prematura fine, a 24 anni, il prezzo da pagare per la sua hybris. Punito per aver avuto la presunzione di potersi liberare, con le sue sole forze, dalle convenzioni della società in cui era nato e cresciuto.
Un destino che, viaggiando liberamente (anch’io) nel tempo e nello spazio, associo a quello dell’artista milanese Pippa Bacca. Nella sua ultima performance artistica, “Brides on Tour – Spose in viaggio”, Bacca, 33 anni, nipote di Piero Manzoni, decise di attraversare in autostop 11 Paesi colpiti da conflitti armati con l’obiettivo di promuovere un messaggio di pace e fiducia nel prossimo. Il viaggio iniziò l’8 marzo, Festa della donna, da Milano, e si sarebbe dovuto concludere entro metà aprile, a Gerusalemme. Lei e la sua collega artista Silvia Moro, sempre e rigorosamente vestite di bianco, attraversarono Slovenia, Croazia, Bosnia e Bulgaria. Si separarono appena arrivate in Istanbul, con l’intenzione di riunirsi a Beirut pochi giorni dopo. Il 31 marzo 2008, mentre si trovava a Gebze, in Turchia, Pippa Bacca è stata violentata e uccisa da Murat Karataş, un uomo che le aveva offerto un passaggio. Il suo corpo è stato ritrovato l’11 aprile. Karataş è stato arrestato dopo aver utilizzato il cellulare della vittima, permettendo così alla polizia di rintracciarlo. Il messaggio di amore, pace e fiducia che le artiste avrebbero voluto trasmettere, non è mai stato recapitato.
Man vs Bear
Mentre scrivo, in Italia si sta ancora parlando degli ultimi femminicidi avvenuti, e chissà che quando la rivista uscirà in edicola non ne saranno accaduti degli altri. È più che mai difficile, oggi, per noi donne, sentirci al sicuro: non c’è bisogno di viaggiare da sole in Paesi colpiti da conflitti armati per rischiare la vita, basta cedere all’invito di un ex che continua ad ammorbarci. Vale per Pippa Bacca come per ogni vittima: c’è sempre qualcuno che dirà “se l’è andata a cercare”. Forse l’unico posto dove noi donne saremmo sicure è into the wild, che è anche un modo per rispondere al famoso trend di TikTok Man vs Bear: “Se fossi sola in un bosco, preferiresti incontrare un orso o un uomo?”. Da sole, nella natura e tra gli animali, come Robyn Davidson, la donna che nel 1977, a 27 anni, attraversò il deserto australiano accompagnata da quattro cammelli e un cane, esperienza raccontata da lei nel suo libro Orme e da John Curran (notare: regista uomo) nel suo film Tracks – Attraverso il deserto, con protagonista Mia Wasikowska. A dire la verità Davidson non era proprio solissima: per documentare l’impresa accettò il supporto del National Geographic, che inviò il fotografo Rick Smolan (interpretato nel film da Adam Driver: l’unico uomo che forse sarebbe preferibile all’orso) a incontrarla periodicamente lungo il percorso.
Dello stesso anno, il 2014, è il film Wild, diretto da Jean-Marc Vallée (notare: regista uomo) e interpretato da Reese Witherspoon. Questo, invece, è basato sul memoir di Cheryl Strayed, Wild: From Lost to Found on the Pacific Crest Trail. Qui abbiamo Reese Witherspoon che, nel 1995, dopo la morte della madre, un divorzio doloroso e una spirale di dipendenze e comportamenti autodistruttivi, decide di intraprendere un’escursione solitaria di oltre 1.700 chilometri lungo il Pacific Crest Trail, un percorso che attraversa gli Stati Uniti da sud a nord. Senza esperienza pregressa nel trekking, Cheryl affronta le sfide fisiche e mentali del viaggio, utilizzando il tempo e la solitudine per riflettere sul proprio passato e cercare una forma di redenzione personale (proprio come la protagonista dell’altro film).
Sbagliare viaggio
Oggi mi chiedo: perché se quando penso al viaggio in solitaria penso a questo genere di “avventure” nella natura selvaggia e nel totale isolamento (strumenti di guarigione e trasformazione personale), l’unico viaggio “importante” da sola della mia vita l’ho fatto in direzione totalmente opposta, e cioè a New York, in una sorta di Mangia, prega, ama al contrario? Se la protagonista esaurita del libro di Elizabeth Gilbert, interpretata da Julia Roberts nel film del 2010 diretto da Ryan Murphy (che posso vantarmi di non aver mai visto), scappava dalla sua vita frenetica nella metropoli per eccellenza per ritrovare se stessa magnando, pregando e amando, io per festeggiare il mio trentesimo compleanno decisi di andare deliberatamente a esaurirmi esplorando da sola la Grande Mela con una disponibilità economica che, ora me ne rendo conto, rendeva l’impresa totalmente priva di senso. Due settimane a nutrirmi di barrette al caramello salato e birre in lattina comprate ai deli, scorrere Tinder senza il coraggio di incontrare nessuno e, questo almeno posso affermarlo, una breve ma intensa epifania spirituale nella sala del Met dedicata alla pittura europea del 1300 (divertente come la visione della pittura europea sia uno dei pochi ricordi felici del mio unico viaggio in America). Se la mia amica era tornata dal suo viaggio in India – dove aveva digiunato, praticato la meditazione Vipassana e insegnato l’inglese ai bambini – dimagrita, vegetariana, non più fumatrice né bevitrice di alcol (abitudini riprese dopo 3 giorni a Milano), io ero tornata gonfia, stordita, ancora più depressa e frustrata di quando ero partita, con un bottino di due chocker e un lipgloss di Forever 21. Con la saggezza dei quasi quarant’anni, posso dire che avevo semplicemente sbagliato meta. Chi come me pretende dal viaggio che sia curativo, una miracolosa guarigione e la riscoperta della gioia di vivere, dovrebbe prediligere mete abbastanza sicure che consentano di approfittare di un benefico shock culturale o perlomeno estetico, come il Giappone o l’Islanda. Luoghi dove sia possibile stare da sole senza sentirsi sole. Luoghi dove sia possibile viaggiare come gli uomini, senza per forza dover conoscere qualcuno a cui aggregarsi, senza scambiare due chiacchiere, senza fare amicizia.
Serve un manuale?
Tra i titoli che ho provato a immaginare per questa mia riflessione sul solo female travel, ho pensato a “Io viaggio da sola”, variazione sul tema del film di Bertolucci. Ho scoperto, però, che esiste già un libro con questo titolo, pubblicato da Einaudi nel 2012. Lo ha scritto la curatrice e storica dell’arte Maria Perosino, morta nel 2014 a 52 anni. È una specie di diario-manuale per le donne che viaggiano in solitaria, brillante, sgangherato e a dire il vero anche un po’ snob, pieno di aneddoti e consigli pratici sulle micro-difficoltà che una donna può affrontare mentre viaggia da sola, tipo pensare che per mangiare le ostriche sarebbe meglio essere in due (ma la scelta peggiore, sottolinea saggiamente l’autrice, è non mangiarle affatto) o ritrovarsi con una valigia troppo pesante («È il trolley l’invenzione che più di ogni altra, pillola anticoncezionale inclusa, ha contribuito alla liberazione delle donne», scrive Petrosino) o vedersi sempre assegnare il tavolo più sfigato del ristorante solo perché si è da sole. È una lettura divertente, che per una volta non considera il viaggio in solitaria femminile come un’impresa grandiosa e trasformativa, ma come quello che, invece, molto spesso, è: una semplice vacanzina fatta da sole, magari neanche per scelta.
Meglio tardi che mai
Avendo io già affrontato infinite vacanzine da sola, nel mio immaginario il vero viaggio in solitaria resta però quello epico, dove la protagonista ritrova il contatto con la se stessa bambina, guarisce dai suoi traumi, guarda la vita da un nuovo punto di vista, piange di felicità osservando un ramarro, aggiusta da sola un utensile che si è rotto, continua a camminare per decine di chilometri nonostante l’arrivo improvviso e inaspettato delle mestruazioni, danza intrepida sotto al temporale, utilizza come doposole il vero succo di un’aloe, fa amicizia con un cane randagio (mi rendo conto di aver elencato solo cose che possono benissimo accadere anche durante una vacanza solitaria in Sardegna). Di sicuro, nel mio viaggio “epico”, non ci saranno ristoranti né trolley. Considerando la mia difficoltà a risparmiare soldi da investire nei viaggi, finirò come Edie Moore, la protagonista del film del 2017 diretto da Simon Hunter (notare: regista uomo). Dopo la morte del suo insopportabile marito, la signora Edie, 83 anni, si trova finalmente libera alla fine di una vita di rimpianti e sacrifici. La figlia insiste perché si trasferisca in una casa di riposo, ma lei si rifiuta, anzi, decide di affrontare un’impresa che aveva pianificato prima del matrimonio: scalare il monte Suilven, nelle Highlands scozzesi.
Viaggiare in pubblico
È anche grazie alle solo female travel influencer e al loro lavoro di divulgazione dei viaggi in solitaria su YouTube, Instagram e TikTok, se nel 2025 il fatto che una donna viaggi da sola in giro per il mondo è qualcosa che diamo per scontato: la madre fricchettona che negli anni ’70 partiva per il Tibet oggi è una stylist di Milano che ci bombarda di storie Instagram sul suo viaggio in solitaria ruvido e genuino in Madagascar, tra serate insieme ai locals, bagni nuda in spiagge incontaminate, pasti frugali in bar con le sedie di plastica, animali strani e forse pericolosi fotografati con ironia. Sì, perché molte solo female travel influencer o aspiranti tali, in realtà, non sono davvero sole: il loro è un viaggio in compagnia dei follower. Tra le più famose c’è la polacca Eva Zubeck, classe 1991. Come da tradizione – e come ci fa sapere in un reel pinnato in cima al suo profilo in cui si vede lei con un tubino nero e delle collant velate – a 26 anni Zubeck ha abbandonato un lavoro ottimamente pagato a Londra, una relazione stabile e «tutti i lussi che si potrebbero desiderare» ed è partita con un biglietto di sola andata per il Nepal. Da allora ha documentato tutti i suoi viaggi su YouTube, mentre su Instagram conta 1 milione di follower. Sul suo profilo si trovano reel come «Cose che ho detto alla mia famiglia solo dopo essere sopravvissuta», oppure «33 anni, no marito, no figli, no piani, la vita è bella» (e lei che fa il bagno in un catino di acqua fumante in mezzo a una malga) e anche «Le mie opinioni controverse sui viaggi». In sette anni Eva ha viaggiato in oltre 60 Paesi, tra cui Pakistan (dove ha vissuto per più di un anno e condotto il programma A Place Called Pakistan per TRT World), Afghanistan, Yemen e Iraq. Per Euronews ha presentato la miniserie Rerouted: The Balkans. Nel 2024 è diventata la protagonista della serie Superskilled with Eva zu Beck su National Geographic. Insomma, come succede a molte travel influencer, o perlomeno alle più brave, ha trasformato i suoi viaggi in un lavoro. «La felicità è reale solo se condivisa», scriveva prima di morire Christopher McCandless. Non credo proprio che intendesse condivisa sui social, ma va bene lo stesso.

La campagna pubblicitaria di American Eagle è stata indubbiamente efficace: i liberal di tutto il mondo hanno abboccato alla provocazione e i conservatori hanno colto al volo l'occasione per ribadire che non si può più dire niente.