Attualità | Ambiente

La crisi climatica ci renderà tutti terrorizzati di volare

Le turbolenze gravi come quella del volo di Singapore Airlines da Londra a Singapore stanno diventando sempre meno rare e la causa è il riscaldamento globale.

di Ferdinando Cotugno

Ci vorranno indagini piuttosto complesse per stabilire cosa abbia causato di preciso la terribile turbolenza sul volo Singapore Airlines da Londra a Singapore che ha ucciso una persona e ne ha ferite diverse. L’ipotesi più accreditata è che si sia verificato l’incubo di chiunque soffra di ansia di volare, come me: una turbolenza in aria chiara. Aria più calda che si mescola con quella più fredda, creando correnti discendenti e ascendenti, che sbatacchiano l’aereo «come un possente colpo di phon» (espressione crudele ed efficace consegnata subito dopo l’incidente da un ex pilota a Repubblica, non l’articolo più gentile per gli ansiosi, nel quale si dice anche che i piloti sono meno preparati per queste emergenze perché l’addestramento è diventato «più veloce»). Le turbolenze in aria chiara sono le più pericolose, perché non sono legate al meteo, sono invisibili ai radar, possono arrivare in qualsiasi momento. Non tirano giù gli aerei e quasi mai causano la devastazione del volo Singapore Airlines, già diventato il nuovo ground zero del mio terrore. Però possono arrivare in qualsiasi momento, non annunciate da nessun segnale, anche nel più sereno e stabile dei sorvoli. Su quel volo stavano servendo la colazione sopra le isole Andamane, con undici ore di volo già alle spalle. Quello era il momento in cui, se sei un passeggero come me, di solito stai iniziando a concederti di pensare: forse anche questa volta l’ho sfangata. Qualcuno si era appena svegliato ed era andato a lavarsi i denti in bagno, erano rilassati e molti avevano le cinture slacciate. I terrificanti video mostrano vivande che volano, caffè che volano, persone che volano, sbattute come pupazzi contro le cappellerie. È durata pochi minuti, ma niente rende relativo lo scorrere del tempo quanto una turbolenza in aereo.

Le turbolenze così gravi da fare del male a equipaggio e passeggeri tanto da finire nelle colonnine video virali dei siti di news sono rare (sono affascinato da chi ha la prontezza di riflessi e soprattutto l’ottimismo da mettersi a filmare con lo smartphone in quei momenti). Però stanno diventando meno rare a causa dei cambiamenti climatici: il riscaldamento globale sta inaugurando una nuova età dell’oro della paura di volare. L’aviazione è come il canale di Panama che quest’anno è andato in crisi a causa della siccità sopra l’America centrale: capolavori di ingegneria del Novecento, i cui calcoli e principi di funzionamento erano pensati per un altro clima e per un’altra atmosfera. Secondo uno studio dell’Università di Reading uscito lo scorso anno, che tutti stanno citando in queste ore e che io ovviamente conoscevo già (perché gli ansiosi sono accumulatori seriali di informazioni), i voli sono diventati il 55 per cento più turbolenti negli ultimi quarant’anni a causa dell’aumento della temperatura dell’aria e di come sta alterando le correnti. Sull’Atlantico nel 1979 c’erano state 17,7 ore di turbolenza in aria chiara. Nel 2020 erano 27,4 ore. Quelle di turbolenza media (ma per chi ha paura non c’è niente di «medio») sono passate da 70 a 96,1. Le turbolenze sono uno dei pochi casi in cui la classe privilegiata del mondo soffre di più e non di meno degli altri a causa della crisi climatica, semplicemente perché prende più spesso l’aereo. Magari l’1 per cento del genere umano che ha il potere finanziario e politico di fare qualcosa contro il riscaldamento globale finalmente si deciderà ad agire solo per evitare di morire di paura dieci volte all’anno dentro i loro jet privati. La turbolenza è democratica, non c’è un fast track costoso per risparmiarsela.

Morire in un incidente aereo, o anche solo avere un volo così brutto da diventare parte della tua biografia e delle storie che racconterai per sempre nella tua vita, è straordinariamente improbabile. Ci sono attività molto più pericolose che facciamo ogni settimana senza pensarci. Ovviamente, tutto questo per una mente ansiosa è irrilevante, il calcolo probabilistico non è ancora arrivato nelle parti più profonde della nostra psiche, il motivo del successo della paura di volare è lo stesso di quello delle lotterie: non si sa mai se questa volta toccherà proprio a me. Un aereo è un laboratorio applicato di ansia anticipatoria, qualcosa che quattro passeggeri su dieci sperimentano a un certo punto (e che per il 2,5 per cento è una fobia clinica). Li riconosco tutti, perché fanno le stesse cose che faccio anche io: ascoltano religiosamente la voce del pilota, si irrigidiscono se si accende il segnale di allacciare le cinture, allacciano cinture già allacciate giusto per sicurezza, sobbalzano se passa il carrello porta vivande, stringono il bicchiere del caffè anche se il tavolino è immobile come quello della colazione a casa, passano il volo a guardare fuori cercando presagi di sventura. Le mie parole preferite non sono «Ti amo», ma quando un pilota dice: «Cabin crew, take a seat for landing». Ogni atterraggio mi sembra una guarigione.

Tom Bunn è un ex pilota e «psicoterapeuta con licenza», dice sul suo sito, forse quello che ha avuto più successo tra i tanti entrati nel business della paura di volare. La piattaforma che ha fondato ha la grafica di un sito del 2007 (la paura di volare è un evergreen che non ha bisogno di marketing) e offre una serie di opzioni, per ogni esigenza. Devi volare tra due giorni: scaricati quaranta videolezioni. Devi volare tra due ore: telefona. Ha creato un call center, venti minuti costano ottanta dollari, non ho mai provato, ma una notte di vento prima di un volo il capitano Tom era finito sui miei radar (grazie alla sua eccellente SEO) e così ogni tanto provo a immaginarmi cosa direbbe, in cambio di quegli ottanta dollari. In un video su YouTube, la spiegava così: l’aereo in volo è come se fosse immerso nella gelatina, provate a metterne un aereoplanino giocattolo nel jello e vedrete come sta bello dritto e stabile. Non so se ci sono studi sull’effetto del riscaldamento globale sulla gelatina.

La paura di volare è un esercizio di tolleranza sulla vulnerabilità e l’imprevedibilità dell’esistenza dentro un ambiente dal quale non puoi uscire finché non sarai dall’altra parte. Ognuno risponde a modo suo, con gli strumenti che ha, è anche un buon modo per ascoltarsi. Per qualcuno è innata, per altri (come me) arriva a un certo punto della vita, come un raffreddore o un nuovo gusto acquisito. Prima non c’era, poi c’è. (Per fortuna l’unico atterraggio di emergenza della mia vita è stato quando non c’era). È istruttiva, anche se molto spiacevole. Le statistiche sull’aumento delle turbolenze in aria chiara sono misurate in termini di dieci ore in più all’anno su una delle rotte più affollate al mondo, quando il numero totale di ore volate dagli aerei è di venti milioni all’anno. Il suo rapporto con il riscaldamento globale colpisce più che altro perché svela quella tendenza dei cambiamenti climatici ad avere uno strano rigore morale: l’incredibile successo dell’aviazione civile nel secolo scorso è stato uno degli ingredienti della crisi (il settore è il 3 per cento delle emissioni di CO2), che a sua volta sta contribuendo a rendere più spiacevole e precaria l’esperienza. Gli aerei hanno sempre qualcosa di simbolico, per questo sono così presidiati e sono prediletti dal terrorismo internazionale così come da quello interiore. C’è qualcosa di innaturale, come sporgersi fuori da quello che sarebbe prescritto come umano. Ho paura di volare, e preferirei non averne, ma segretamente mi sembra anche una forma di saggezza.