Attualità

Romanzo catastale

Storie di case: abitare l'Italia del boom, un libro che racconta i fasti e la caduta di 23 case costruite nel periodo d'oro dell'edilizia italiana.

di Michele Masneri

Romanzo di case. Tinelli contro cantinette abitabili e taverne. Attici e superattici, ammezzati, seminterrati, rogiti, mobili in stile, androni e cancelli, e «tutti gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica» (Gadda). C’è tutto questo in un saggio che sembra un libro di Georges Perec: Storie di case: abitare l’Italia del boom, curato per Donzelli da Filippo De Pieri, Bruno Bonomo, Gaia Caramellino e Federico Zanfi. Cinquecentoventiquattro pagine di un libro che sembra appunto La vita. Istruzioni per l’uso, romanzo esistenziale e catastale, e insieme Le Cose, storia di aspirazioni a consumi opulenti nell’era delle fibre plastiche, entrambi di Perec. Romanzo di 23 case costruite negli anni del boom italiano subito dopo la seconda guerra mondiale, tra Roma Milano e Torino, tra proletariato, micro e mini e medio-alta borghesia. Con mitologie uscite da film di Jacques Tati, ma in Italia: a partire da Roma, da una piscina sorta in pieno Prenestino, a via dell’Acqua Bullicante, non ancora ai margini del deep Pigneto gentrificato di oggi. Storie e abitanti di quattordici palazzine costruite tra il 1962 e il 1969 su un lotto delimitato dalle vie «di Acqua Bullicante, Luchino dal Verme, Guglielmo degli Ubertini e Sampiero di Bastelica». «Esse comprendevano 382 appartamenti, oltre a circa 120 box auto interrati e una sessantina di locali commerciali su strada», e, soprattutto, una piscina: objet trouvé improbabile nel quartiere tra i più modesti di Roma, non ancora valorizzato dal confinante marketing territoriale pasoliniano, “la piscina” diventa lo status symbol supremo tra i palazzoni che affacciano sui vicini stabilimenti della Snia Viscosa e sul trenino verso Pantano, e oggi verso la effimera metro C.

Romanzo di 23 case costruite negli anni del boom italiano subito dopo la seconda guerra mondiale, tra Roma Milano e Torino, tra proletariato, micro e mini e medio-alta borghesia.

L’astuta pubblicità dell’epoca recita: «al Prenestino ci si può affacciare sul blu di una piscina», anche se nelle foto d’epoca la piscina sembra più verdastra che blu; un avamposto di agi da alta borghesia grazie all’elemento clorato in mezzo al nulla fu il segreto di successo di questo progetto voluto dalla Società Generale Immobiliare, spectre ambientale del Novecento. La Generale Immobiliare ha costruito a partire dal 1862, anno di fondazione sabauda, gli scempi ma anche i capolavori dell’edilizia italica, partecipando a tutti i sacchi urbanistici soprattutto all’interno del Gra. Costruisce tutti i quartieri umbertini a Roma: Esquilino, Prati di Castello, Ludovisi. In questi ultimi due si butta in una furiosa lottizzazione che coinvolge anche il papa Leone XIII, speculatore in proprio, e porta allo sventramento della villa Ludovisi, mentre in Prati, quartiere oggi ambìto di decoro notarile e baretti Rai, scoppia la mega bolla immobiliare: palazzi appena finiti e deserti, erbacce e edere sulle eleganti facciate, lo racconta Emile Zola nel suo Roma (1886).

Ma la Società Immobiliare, che poi diventerà di proprietà vaticana, comprata in parte coi soldi del risarcimento dei Patti Lateranensi (1929),  costruisce anche tutta Roma Nord: Balduina, Vigna Clara, Olgiata; ma anche Casalpalocco, e poi a Milano la Torre Velasca. E, sempre a Roma, l’Hotel Hilton, oggi Cavalieri Hilton, accusato da molti di aver rotto il ponentino, insieme ad un altro monstrum architettonico, il serpentone del Corviale, questo però proletario (e la Immobiliare, guidata poi dal “banchiere di Dio” Michele Sindona, avvelenato in carcere, fallì invece ingloriosamente nel 1987).

Gli abitanti prenestini però sono contentissimi: «Qui c’era la piscina: quindi c’era anche l’idea di venire qui per questa ragione. Sembrava un posto più elegante» (Marisa C., figlia di un ufficiale dell’Aeronautica). «Mio marito diceva sembra di stare in spiaggia, perché tutte le persone che uscivano per andare in piscina si vestivano [come per] andare al mare: i ragazzi uscivano coi calzoncini, si mettevano qualcosa sopra, i capelli bagnati… Quindi c’era quest’aria piuttosto vacanziera quando arrivava l’estate» (sempre Marisa C.). «Tutt’intorno alla piscina ci sono sdraio, ombrelloni, tavolini, lettini: quindi, ecco, se magari una persona non ha la possibilità di andare in vacanza, sotto casa ha come un villaggio turistico, se vogliamo definirlo così (Francesca S.)».

Intanto, in quegli anni, non solo al Prenestino, tematica dello studio, e pericolose sovrapposizioni col tinello; scrivono i curatori: «anche in altre case la stanza di servizio divenne uno studio, ambiente che sembra mantenere ben oltre gli anni del fascismo un particolare valore simbolico per i ceti medi in termini di prestigio sociale e distinzione rispetto alle classi lavoratrici; oppure si adottarono soluzioni diverse, come adibirla a tinello collocandovi una credenza e un tavolo da pranzo o trasformarla in un laboratorio per i piccoli lavoretti. Indipendentemente dalle scelte delle singole famiglie, comunque, il dato di fondo è che la funzione originariamente prevista per questa stanza, legata a un modello di domesticità tipicamente borghese che negli anni sessanta stava ormai tramontando, non corrispondeva più – e in molti casi, in realtà, non aveva mai corrisposto – alle disponibilità economiche, agli stili di vita e al desiderio di privacy di un ceto medio che quindi trovò naturale adattarla a usi diversi in aderenza alle proprie esigenze e al proprio modo di vivere la casa».

La signorilità è naturalmente tutto, mentre pericolose dinamiche si spiegano in tutta la loro ampiezza –  la cucina che diventa angolo cottura, il salone che diventa sala e poi living, rimpicciolendosi, la rappresentanza che diminuisce di spazio e importanza a favore del nuovo culto di cessi e cucine (ma molti anni dopo). L’androne, anche, è molto importante: direbbe la prostituta Delia, acquirente di nuove urbanizzazioni intensive romane, in Parigi o cara: «E poi c’è un portierato, signora mia! Er portiere mio cià na tastiera che tante volte je dico ma che sòna er piano!».

Sempre Roma, ma distanze siderali, ecco la signorilità in purezza (con risultati nefasti): una palazzina a via Ximenes, nei Parioli verdi opulenti. Fatta «dall’architetto Piccinato» nel 1948, per una clientela sceltissima –  sempre la prostituta Delia direbbe «ce so certe ragazze che paiono principessine». La palazzina Piccinato, dotata di ascensori privati che portano direttamente agli appartamenti, è seguita dall’edificazione fino ai cedimenti strutturali del 1999. Le dinamiche più interessanti si svolgono al piano terra, dove abita una «marchesa di Bagno», che deve far posto alla numerosa prole di una figlia coniugata (evidentemente male) con un Sig. Simoni, e dunque comincia a erigere moltissimi tramezzi, anche con fughe di saloni «come in un palazzo settecentesco, stanza dentro stanza», però per avere più posti letto (mentre la coppia di domestici sta in una cantina, sotto). La marchesa usucapisce poi «un’ampia area del cortile condominiale a est (circa 50 metri quadrati), recintandola con un muretto alto circa 90 centimetri sormontato da una struttura lignea atta a ospitare piante rampicanti». Nel giardino usucapito, anche una coppia di tartarughe molto amate. Il piano terra marchionale passerà poi ai conti Leopardi, discendenti del poeta, e poi ad altri. Nel 1988 la nuova proprietaria, in epoca di loft, elimina tutti i tramezzi, desiderando un open space, minando l’equilibrio strutturale dei piani superiori e accelerando il rapido dissesto dell’edificio che successivamente verrà dichiarato inagibile e evacuato (e tra la voglia di eliminazione dei tramezzi e il conseguente dissesto del palazzo c’è forse una condanna morale che attiene allo status di single della proprietaria vogliosa di libertà e spazi aperti).

Sempre a via Ximenes, al terzo piano, anche celebrità, con Eduardo De Filippo, col figlio Luca e una tata e la coppia di mastini napoletani Guaglione e Azocena.

Sempre a via Ximenes, al terzo piano, anche celebrità, con Eduardo De Filippo, col figlio Luca e una tata e la coppia di mastini napoletani Guaglione e Azocena. Al secondo piano, invece, un appartamento in uso al personale dell’ambasciata jugoslava, poi serba. Qui, agi diplomatici e materiali pesanti, tra probabili microspie e telegrammi cifrati. L’ambiente si presenta «fortemente caratterizzato dallo stile dei fine anni quaranta», dunque legni, rivestimenti in marmo, porte massicce in mogano scuro. Solida separazione tra gli ambienti di rappresentanza (ingresso principale, soggiorno, sala da pranzo) con atrio sottolineato da «archi non strutturali il cui intradosso è rivestito in marmo nero». Zona giorno con nicchie alle pareti e vetrine che «alludono agli interni romani di Clemente Busiri Vici dei tardi anni trenta, e dalla pavimentazione in marmo nero alternato a venato». Porte in legno scuro laccato (alcune parzialmente vetrate smerigliate) e pavimenti alla veneziana nella zona notte e di servizio. «Il bagno padronale a sud è completamente rivestito da grandi lastre di marmo venato».

All’attico, intanto, si procede a costanti e laboriosi abusi, avanzando di quattro metri sulla terrazza, guadagnando 60 metri quadri, ricavando un bagno nell’ascensore, poi un superattico e un altro piano ancora; gazebi; ci sta prima un commendatore. Poi un architetto, arredando il tutto con «mobilio di sapore tipicamente anni Settanta – sculture africane, ampia vegetazione interna sul fronte ovest, poltrone in vimini e mobilio moderno». Il lavorio e le ambizioni incessanti di pars destruens demolitrice al piano terra e pars construens cementificatoria all’attico porteranno poi nel 1999 al cedimento e a «imponenti lavori di consolidamento del palazzo». Dopo i restauri, arriva una coppia, che acquista l’attico e vuole trasformarlo «in una abitazione extralusso», con piscina sul terrazzo. Ma non è fattibile, gli dicono: la coppia se ne andrà: alla ricerca del posto giusto in cui costruire la sua piscina; come tutti.

 

Nell’immagine, un momento del film Mon Oncle di Tati