Attualità

Si può parlare di “romanzo obamiano”?

Riflettere sull'eredità culturale dell'era Obama. Lo fanno due articoli usciti in questi giorni, al cui centro c'è la parola "autenticità".

di Cristiano de Majo

In questi giorni sono usciti a distanza ravvicinata due pezzi importanti e belli che in qualche modo dialogano uno con l’altro. Hanno a che fare con la letteratura e con Barack Obama da due diversi punti di vista; l’occasione è stata la fine della presidenza, la fine di un’epoca quindi, un momento in cui naturalmente si riflette su quali eredità stiamo raccogliendo. Su Vulture del New York, Christian Lorentzen, uno dei critici letterari più inventivi e acuti di questi anni, ha disegnato una dettagliata mappa dello stato del romanzo nell’era Obama. La premessa interessante, per certi versi ardita, è che ogni presidenza ha avuto i suoi romanzi più rappresentativi, o meglio: ogni presidenza ha caratterizzato un’epoca e il romanzo è il riflesso non tanto di una leadership ma di un contesto, di un’atmosfera. Se, dice Lorentzen, Corri, Coniglio di John Updike e Revolutionary Road di Richard Yates sono stati romanzi kennediani; se possiamo ritrovare gli eccessi dell’epoca reaganiana in Meno di zero di Ellis e nelle Mille luci di New York di McInerney; se le opere più simboliche della presidenza Bush (padre) e Clinton sono rispettivamente American Psycho e Infinite Jest; se, infine, l’era di George W. Bush ha prodotto quelle che il critico chiama «elaborate fictions», da Eggers a Lethem, da Powers a Galchen, cosa ha caratterizzato letterariamente gli anni trascorsi tra i due mandati di Barack Obama?

Per rispondere alla domanda, Lorentzen individua quattro tendenze che hanno contraddistinto questo tempo e che condensano, secondo lui, lo spirito del romanzo americano, ma non solo: l’autofiction, “il nuovo romanzo meritocratico”, “il retroromanzo”, “il romanzo del trauma”.  A monte di questo, parla prima però di un’ascesa dell’autenticità, segnalando l’importanza di due “interventi” che hanno in qualche modo preceduto o profetizzato ciò che sarebbe successo dopo. Il saggio di Zadie Smith “Two Paths for the Novel” pubblicato sulla New York Review of Books (e incluso poi in Cambiare idea, la raccolta uscita da minimum fax), ma soprattutto Fame di realtà, l’esperimento/manifesto di David Shields, che lo stesso Lorentzen ammette di avere sottovalutato all’epoca, ma che oggi, parole sue, non può che essere definito «un profeta».

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Nel 2010, data di uscita di quel libro, i modelli e gli esempi sul tipo di letteratura descritta e immaginata da Shields – ricordiamolo molto in sintesi: una letteratura basata sulla realtà, sull’esperienza e sulla combinazione di materiali diversi, fino all’uso del “sample” – erano ancora pochi. Nel libro venivano citati Renata Adler, poi ritornata all’onore delle cronache editoriali con la ripubblicazione dei suoi inclassificabili oggetti letterari, W. G. Sebald, Nicholson Baker e pochi altri. Ma è vero, come dice Lorentzen, che dopo l’uscita del libro le cose sono cambiate.

Lo si nota nel leggere gli autori citati dal critico all’interno dell’autofiction, tutti per un verso o un altro legati alla teoria letteraria di David Shields: Ben Lerner, Sheila Heti, Tao Lin, Teju Cole, Jenny Offill (Knausgård in Europa), molte cose di cui abbiamo parlato su Studio. In verità anche le altre categorie individuate da Lorentzen sembrano particolarmente azzeccate. Difficile non riconoscere, per esempio, la novità del “retro novel”, che Lorentzen definisce come qualcosa di diverso dal romanzo storico, perché si concentra sul passato recente con una forma di rivisitazione nostalgica fatta da autori che non hanno vissuto quel tempo (come esempi più significativi vengono citati Città in fiamme di Garth Risk Hallberg e I lanciafiamme di Rachel Kushner). E poi ancora: la moltiplicazione di storie incentrate su traumi come malattie, abusi infantili, lutti (Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout, Una vita come tante di Hanya Yanagihara, tra gli altri). E, infine, le storie “meritocratiche” di romanzi spesso ambientati nel mondo universitario e incentrati sull’ascesa sociale (Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie, Amori e disamori di Nathaniel P. di Adelle Waldman).

Riassumo molto, il pezzo è lungo e meriterebbe di essere letto tutto. Ma voglio arrivare all’osso che, a mio avviso,  è “autenticità” come vera parola d’ordine di questi anni sul piano letterario, cosa dimostrata dal fatto che i libri più significativi dal punto di vista formale sono stati quelli che hanno montato, smontato e rimontato storie intorno a questo tema, quindi soprattutto quelli che Lorentzen include in quella che lui definisce autofiction. È evidente che il concetto di “autenticità” riluce e attraversa uno spazio che collega la letteratura con la televisione e arriva fino alle autorappresentazioni delle nostre identità sui social network.

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D’altra parte, l’autenticità è stato il carattere preminente della presidenza Obama. La cosa che meglio gli è riuscita probabilmente è stata proprio la costruzione – intesa come comunicazione e racconto – di un personaggio autentico. E se si vuole confrontare il lungo saggio di Lorentzen con un lato b, bisogna leggere l’intervista pubblicata il 16 gennaio che Michiko Kakutani, capo editor della sezione libri del New York Times, ha fatto all’ormai ex presidente. Un’intervista bellissima, intensa, il cui tema centrale sono appunto i libri.

Tutti o quasi ormai conosciamo la raffinatezza delle letture del primo presidente nero degli Stati Uniti e anche la sua capacità di analisi di un romanzo persino sul piano della struttura, cosa di cui l’intervista rende ampiamente conto (si parla di libri contemporanei come quelli di Colson Whitehead e Lauren Groff). Ma forse più interessante è ripercorrere, sempre grazie all’intervista, la sua vicenda personale di lettore appassionato, nella classica versione adolescenziale dell’outsider che cerca nei libri una fuga dalla realtà, e poi di aspirante scrittore, che studia le storie per capire come si costruiscono e che poi riporta tutto quell’apprendistato nella politica: «La mia idea di servizio pubblico e di politica si è poi fusa con la passione per il racconto».

Da una parte sono stati gli anni in cui la letteratura sembra aver perso rilevanza e influenza sulla società – viviamo nell’era della grande distrazione, o no? – dall’altra, a leggere quest’intervista, pare che mai sia stata così rilevante e influente esondando in campi non suoi come la leadership del più potente Stato del mondo. Da una parte ancora ci sono stati gli esperimenti formali intorno all’autenticità, dall’altra la figura politica in grado di apparire sinceramente autentica come nessun’altra. Sono cose che si toccano, sono stati appunto segni distintivi di quest’epoca e non c’è una unica conclusione possibile, se non forse quella più generale e rassicurante che dà lo stesso Obama quando dice: «Non sono preoccupato per la sopravvivenza del romanzo. Siamo una specie che racconta storie».

 

Immagine di copertina e di testata Getty Images.