Rob Reiner voleva che tutti vivessero felici e contenti

Era amato dal pubblico, era amato dai critici, era amato dagli attori, era amato dagli sceneggiatori: Reiner è stato uno dei maestri americani, una delle più influenti e carismatiche personalità mai viste a Hollywood.

16 Dicembre 2025

Cose che non esisterebbero o non sarebbero le stesse se Rob Reiner non ci fosse stato: The Office e Borat, Parks and Recreation e What We Do in the Shadows, cioè il mockumentary per come lo intendiamo oggi, cioè il mockumentary per come lo intese Reiner in This is Spinal Tap; Stranger Things, tutto ma soprattutto la scena in cui Eleven, Mike, Dustin e Lucas camminano nel bosco seguendo dei binari ferroviari abbandonati; il romantasy e il coming of age movie e la commedia romantica; Katz’s Delicatessen, il più famoso deli di New York; Cathy Bates; Aaron Sorkin; almeno cinque delle scene più citate e imitate della storia del cinema americano: «This one goes to eleven», da This is Spinal Tap; dei ragazzini molto preadolescenti e un po’ sfigati che camminano nel bosco seguendo dei binari ferroviari abbandonati, da Stand By Me; «Hola. My nombre es Inigo Montoya. Tu hai ucciso mi padre. Preparate a morir», da La storia fantastica; quella scena di Harry ti presento Sally… che non ho nemmeno bisogno di descrivere; il volto di Cathy Bates in primo piano, illuminato per un attimo dalla luce del tuono, in Misery non deve morire; «Tu non puoi reggere la verità!», ma soprattutto «Figliolo, viviamo in un mondo pieno di muri e quei muri devono essere sorvegliati da uomini col fucile», da Codice d’onore. L’uomo che ha inventato o contribuito a inventare tutto questo di sé diceva: «Alla fine uno scrive e riscrive sempre le stesse cose. Dipingi sempre lo stesso soggetto, suoni sempre la stessa nota».

L’ingenuo

Rob Reiner avrebbe meritato la morte tranquilla a cui ogni vero americano aspira: «Nella sua casa, circondato dall’amore degli affetti più cari», come si legge nei necrologi che arrivano alla fine di una vita riuscita bene. Questo mondo orribile in cui ci tocca vivere ha invece scelto per Reiner la morte più cruenta e crudele che ci sia, forse accoltellato, forse dal figlio Nick. Questo orrore è toccato proprio a lui che per tutta la vita aveva incarnato quella fanciullezza, quell’ingenuità, quella purezza americana di cui oggi rimane traccia soltanto nei film (appunto). Reiner aveva 42 anni quando scoprì che certe volte le donne fingono di avere un orgasmo. Lo scoprì chiacchierando con un’amica durante le riprese di Harry ti presento Sally…, incredulo andrò a chiedere conferma a Nora Ephron, lei le rispose «certo che lo fanno», lui commentò prima con uno stravolto «Mio Dio, i maschi non ne sanno niente» e poi con un deliziato «Dobbiamo mettere questa cosa nel film!».

Il suo più grande problema durante le riprese di Stand by Me fu trovare per il film un titolo diverso da quello del racconto di King, “The Body”. Aveva paura, Reiner, con quel titolo la gente pensasse che si era messo a fare i porno. O, peggio, un documentario sul body building. Non c’era malizia né cinismo né opportunità nel modo in cui Reiner si conduceva nel mondo, solo una bambinesca meraviglia di cui riusciva a lasciare traccia in ogni scena che girava, senza che nessuno fosse mai riuscito a capire se l’uomo avesse un piano, un metodo, uno stile, una poetica o semplicemente il tocco magico. Come fai, gli hanno chiesto un’infinità di volte nella vita. «Voglio solo che le persone siano felici», rispondeva lui, unica persona in tutta Hollywood – in tutto il mondo – che poteva permettersi di dire una cosa del genere senza essere preso a pernacchie in faccia.

Ovviamente, Reiner era tutt’altro che un ingenuo. Avesse voluto diventare il solito stronzo, avrebbe avuto tutti i mezzi e le risorse per riuscirci. Era figlio dell’aristocrazia hollywoodiana, sulla Walk of Fame c’è una stella che porta il nome di suo padre Carl e nel titolo del necrologio del New York Times dedicato a sua madre Estelle c’è scritto «matriarca della commedia». Tutta la vita di Rob Reiner è stata però un tentativo di disattendere le aspettative. Raccontava di non aver legato con nessun personaggio dei suoi film come aveva legato con Paul Sheldon di Misery. Si rivedeva in quel povero diavolo che il successo aveva condannato a ripetersi all’infinito, gli ricordava se stesso ai tempi di All in the Family (mirabilmente tradotto Arcibaldo in Italia), quando tutti gli chiedevano continuamente facci ridere, facci Testone (il soprannome che nella serie veniva affibbiato al suo personaggio, Mike Stivich).

E ci mancherebbe, Reiner voleva far ridere, gli piaceva far ridere, ma come tutti i sessantottini gli piaceva soprattutto dire la sua su tutto. Aaron Sorkin ha raccontato che senza il contributo discreto ma fondamentale di Reiner, la sceneggiatura di Codice d’onore non sarebbe diventata quella è e che senza Reiner lui non avrebbe mai imparato quello che poi gli è servito per scrivere The West Wing. Eppure, prima di Codice d’onore Reiner non aveva mai fatto film simile, un legal drama con dentro tanta politica e tanta attualità. Ma come tutti quelli che diventano i migliori, sapeva che non c’è problema che non si possa risolvere tornando ai classici. Ogni volta che doveva fare una cosa nuova, si metteva a guardare vecchi film: per Misery divenne dottore in Alfred Hitchcock, per esempio. Diceva che prima di metterti a scrivere devi assicurarti di conoscere la grammatica. Per lui i classici questo erano: regole, da rispettare o da infrangere, comunque da conoscere. Spesso è stato ridotto a un esecutore, Reiner. Uno bravo a farsi spiegare le cose dagli sceneggiatori e a spiegarle agli attori. Ma non era affatto così, anzi: era pignolissimo in fatto di immagini, lo si capisce vedendo quanto ancora lo facesse arrabbiare un errore commesso durante le riprese della Storia fantastica e mai corretto o scoprendo che girò per 61 volte la “scena del telefono” di Harry ti presento Sally…, fino a quando non la trovò «perfetta».

L’americano

È difficile per chi non c’era in quel momento e in quel luogo capire perché Rob Reiner ha avuto tanto successo. A spiegarlo non basta quell’abilità innata di certi registi americani di tenere assieme autoriale e commerciale, di non vedere nessuna differenza tra la cultura nazionalpopolare e il resto della cultura. A rivedere oggi quell’eccezionale filotto di film che ha fatto di Reiner uno dei nuovi maestri del cinema contemporaneo si viene presi da un certo fastidio, da una notevole disillusione. Rivedendoli adesso si capisce che la persona che ha fatto quei film ha vissuto in un mondo e in un modo che gli ha permesso di nutrire un certa fiducia sia nel prossimo che nel futuro. Reiner ha fatto tanti film e tanto diversi tra loro, nei casi come il suo è difficile parlare della cosiddetta “poetica” che lega a se stessa tutta la vita di un autore. Ma un tratto che unisce tutte le regie di Reiner c’è ed è questa convinzione che la vicenda umana sia una a lieto fine, che il sentiero dell’esistenza conduca inevitabilmente a un luogo di riappacificazione, di serenità, di felicità.

Questa certezza così americana che l’happy ending sia l’unico finale possibile oggi è urticante più che mai, ma come tutti gli artisti Reiner parlava sempre di se stesso e con lui la vita era stata buona e quindi non aveva motivo di raccontarla diversamente. C’è una storia dei tempi di Harry ti presento Sally… che spiega tutto del suo modo di vivere. All’inizio, il film non aveva un lieto fine, Harry Burns era ispirato proprio a Reiner e in quel periodo Reiner non stava affatto bene, aveva divorziato da Penny Marshall e nell’amore non ci credeva più. Sul set poi conobbe Michelle Singer, che sarebbe diventata sua moglie e con la quale sarebbe rimasto per il resto della sua vita. Innamorato, Reiner andò da Ephron e la convinse a cambiare il finale, perché figuriamoci se Harry alla fine non si mette con Sally, queste cose vanno così, la vita funziona così.

Il politico

D’altronde, Reiner aveva tutte le buone ragioni per credere che le cose fossero quelle e sarebbero state quelle, che sarebbe andato tutto bene, nel cinema e nel mondo. Se la California è lo Stato che più si è avvicinato alla realizzazione del sogno americano è anche per merito suo. Nel 2008 diede un enorme contributo politico, mediatico ed economico nella battaglia contro la famigerata Proposition 8, una controriforma della costituzione californiana che prevedeva l’introduzione del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nel 1998 Reiner guidò la campagna per l’approvazione della First 5 Initiative, un programma di sostegno all’infanzia da finanziare introducendo una supertassa da far pagare alle aziende di Big Tobacco. Il suo impegno in quella circostanza fu tale che ieri, tra i pezzi a lui dedicati dal Los Angeles Times, ce n’è uno firmato da Mark Friedman che si intitola: “Rob Reiner reshaped how California understands and invests in children”. Una delle ultime fotografie che gli sono state scattate è del giugno del 2024, ci sono lui, sua moglie Michelle e la figlia Romy che parlano con un agente della Homeland Security messo lì ad assicurarsi che nessuno degli immigrati accampati vicino al porto d’entrata Tornillo-Guadalupe passi il confine ed entri negli Stati Uniti. La famiglia Reiner era lì per protestare contro la cosiddetta zero tolerance policy che permette alla Homeland Security di separare genitori e figli che vengono fermati nel tentativo di attraversare illegalmente il confine.

È per cose come queste, per il suo essere un padre nobile della sinistra liberal, che ieri Donald Trump ha pubblicato su Truth un disgustoso post in cui sostiene che Reiner sia morto – mi scuso se non parafraso, ma chi sono io per parafrasare il Presidente degli Stati Uniti d’America – perché gli rodeva troppo il culo a vedere quanti e quali successi lui stesse ottenendo alla Casa Bianca. Scrivendo questo pezzo ho pensato se fosse proprio necessario includervi questo passaggio, se un uomo come Reiner meritasse davvero di essere ricordato (anche) attraverso le parole di un uomo come Trump. Poi ho pensato che non c’è niente che un uomo come Reiner meriti di più del disprezzo di un uomo come Trump.

Il padre

Come molti avranno fatto, ieri sera sono ho scelto un film di Reiner da rivedere. Ho scelto l’unico che non avevo mai visto perché sapevo che era un brutto film: si intitola Being Charlie ed è una versione romanzata della vita del figlio di Reiner, Nick. Tossicodipendente da quando aveva 15 anni, dieci anni a entrare e uscire dai centri di disintossicazione, lunghi periodi da senza tetto a vagare da uno Stato all’altro, poi il ritorno a casa e in famiglia, disperato come Andrea Pazienza in quella vignetta in cui dice ai genitori «sono tornato per sempre ho finito di scherzare». Rob ha diretto Being Charlie nonostante sapesse che la sceneggiatura scritta da Nick fosse pessima. È l’unico film davvero brutto che ha girato in cinquant’anni di carriera. Ma figuriamoci se l’uomo che voleva che tutti gli estranei de mondo fossero felici non sarebbe stato disposto a fare un brutto film pure di far felice suo figlio.

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