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Quando ci facevamo trattare male al ristorante

Parte del fascino delle vecchie trattorie come Il Matto a Rimini e La parolaccia a Roma è ormai sparito quasi del tutto. Cosa rimane adesso di quel masochismo gastronomico che piaceva tanto ai clienti?

di Carlo Gibertini

Una scena da Fracchia la Belva umana, al ristorante degli Incivili

Gino Mangianti accoglieva i clienti nella sua trattoria sulle colline riminesi a suon di “fucilate” – non è una metafora: brandiva e caricava proprio il fucile – e per questo, a distanza di anni dalla sua morte, è ancora ricordato dai locali come un personaggio epico. Sedicente folle, si faceva chiamare “Il Matto”. Aprì la trattoria nel 1966 e presto divenne il palcoscenico delle sue vere o presunte pazzie. I prop di scena: lunghi tavoli e panche spartane, un servizio piatti variegato, costituito da rimanenze e acquisti in svendita, l’odore inebriante della brace intenta a cuocere i sardoncini romagnoli alla griglia.

Per ore Gino serviva tranquillamente i clienti, ma bastava una minima cosa e dava in escandescenze: iniziava a tirare piatti per terra o a fare scherzi agli ospiti, urlava, gettava piatti stracolmi come se fossero frisbee, scatenava guerre di cibo e trattava tutti male, come in preda a un raptus. Quando la sua pazienza raggiungeva il limite, e bastava poco, Gino andava a strappare le tovaglie dai tavoli ancora apparecchiati e cacciava gli ultimi ospiti con la pompa d’acqua. Infatti non era affatto insolito che gli ospiti, zuppi di vino e spettinati, si trattenessero a ballare sui tavoli e cercassero di scatenare un Gino furioso anche lui ben carburato di San Giovese (il bianco nel suo ristorante era vietato) fino alle 6 del mattino.

Diversamente da quanto oggi potremmo immaginare, questo copione non era solo apprezzato dalla clientela, ma caldamente incoraggiato e spesso provocato. Il Matto era l’istrione, il ristoratore dadaista che si divertiva a turbare e smuovere le anime più timide, ma mai a deludere i clienti con un servizio più vanilla: se erano habitué della sua trattoria, era esattamente ciò che cercavano con piacere.

Se la figura dell’oste burbero è un archetipo della ristorazione popolare, quello che definirei il masochismo gastronomico è un fenomeno che ha visto i suoi momenti d’oro nella seconda metà del secolo scorso. Le trattorie durante gli anni del boom stavano facendo «boom!» anche loro, anche perché il mondo della ristorazione “fine dining” era ancora una cosa quasi solo francese: nella nostra penisola raramente si mangiava fuori casa, e se lo si faceva era per consumare ricette regionali in questi luoghi che mettevano pari tutti: belli e brutti, dirigenti e operai, davanti al loro quartino di vino e al cestino di pane, allegri e dediti al buon cibo in grandi quantità.

Le trattorie non erano solo luoghi dove nutrirsi, ma contesti che segnavano un’appartenenza, in anni durante i quali era di vitale importanza farsi portatori di ideali (ad esempio, gli italiani scendevano ancora in piazza). E stare al gioco era ciò che distingueva un frequentatore di trattorie (come Da Gino Il Matto) dai borghesi che frequentavano i salotti. Chi non sapeva stare al gioco era considerato rigido, triste e inflessibile, ideali non accettabili in un momento di rinascita culturale del Paese.

Cencio La Parolaccia è la culla più celebre del masochismo gastronomico. La famosa trattoria dove te ce mannano è in pieno quartiere Trastevere a Roma, Cencio e la moglie Renata l’hanno aperta nel 1941 e da subito hanno dato un’impronta molto peculiare alla loro attività, decidendo di unire al tradizionale lavoro di ristorazione un intrattenimento basato sulle canzoni folkloristiche romanesche, che spesso sono condite da termini piccanti. Da qui, il nome Parolaccia. Il locale è così conosciuto in tutto il mondo – e non per il cibo – che è diventato parte dell’immaginario che i turisti hanno non solo della ristorazione romana, ma di quella italiana in generale. Cencio e Renata non ci sono più, ma i figli si sono assicurati di portare avanti orgogliosamente la nomea del ristorante, istruendo i camerieri a fare apprezzamenti e battute strafottenti alla romana rivolte alla clientela, nessuno risparmiato (ma forse qualcuno preso di mira più degli altri).

La Parolaccia è così iconico che il cinema non gli ha risparmiato menzioni. La più memorabile, la scena di Fracchia la belva umana di Neri Parenti (1981), dove un malcapitato Giandomenico Fracchia (interpretato da Paolo Villaggio) affronta in maniera goffa una cena che doveva essere un date con Miss Corvino (Anna Mazzamauro) da Sergio&Bruno: gli Incivili, una rappresentazione fedele su schermo dell’ambiente de La parolaccia.

La domanda sorge spontanea: cosa spinge un individuo a voler cenare in un ristorante dove il servizio consiste in un anti-servizio, nel bistrattamento e nella maleducazione? In altre parole, qual è la spinta dietro questo masochismo gastronomico?

Alcuni psicologi sostengono che, se questi ristoranti hanno così tanto successo, è a causa di una distorsione cognitiva che ci fa percepire il cibo come delizioso, perché per averlo abbiamo dovuto sopportare tanto. La maleducazione diventa parte dell’hype di questi locali e i sopravvissuti si assegnano delle specie di medaglie al valore. Pensate anche banalmente ai locali dove si devono fare ore di fila. Da Ada Scallion Pancakes, a Shanghai, la gente ogni mattina fa la fila anche per quattro ore, pur di avere un pancake ai cipollotti di Wu Gencun, il titolare. Non è forse anche questa una forma di masochismo?

Penso però che la tesi più verosimile sia che la gente frequenta questi posti per godere di uno spettacolo e per poter raccontare l’esperienza. Nell’essere vittima e spettatore, il cliente si sente parte di un’esperienza che mette lui e i commensali allo stesso livello, con tinte nemmeno troppo pallide di cameratismo: chi è permaloso, se ne vada.

A scanso di giudizi o moralismi, il masochismo gastronomico è un fenomeno molto interessante e divertente della ristorazione, ma contiene in sé alcuni rischi. Innanzitutto, tradizionalmente i ristoratori “crudeli” e i loro dipendenti sono uomini, eterosessuali, con più di qualche concessione a battute sessiste, omofobe e contatti fisici che ricordano più violenze che scherzi. C’è, inoltre, il rischio boomer, altrimenti detto “ma che ne sanno i duemila”, che contrappone un approccio alla vita ritenuto più leggero e goliardico rispetto a quello serioso e troppo politically correct di chi invece sceglie di fissare confini di ciò che è disposto o meno ad accettare. Ad esempio, il mio confine è che se devo pagare una cena, in cambio voglio cortesia non insulti.

Cosa ne è ora di questo fenomeno? Tramontato, ma ancora con qualche fedele. La trattoria Da Gino Il Matto esiste ancora, l’ambiente è lo stesso, ma avendo perso l’istrione, la famiglia si è concentrata sulla qualità del cibo e ha lasciato perdere il folklore. Cencio La parolaccia è vivo e vegeto, il format continua ad essere amato da turisti e non. Così che la vecchia guardia delle trattorie con gli osti burberi e un po’ dittatoriali stia ormai decisamente scomparendo, lasciando spazio a realtà dove la cura verso il cliente è considerata una virtù e non una debolezza.