Cultura | Cinema

L’inevitabile fallimento di Matrix Resurrections

Il quarto capitolo della saga è un film completamente diverso dai tre che lo hanno preceduto: a Lana Wachowski non interessano più né la speculazione filosofica né il cinema d’azione, le importa solo raccontare una storia d’amore.

di Francesco Gerardi

Neo (Keanu Reeves) in un'immagine di Matrix Resurrections

Che cosa sarebbe successo se quel giorno Thomas Anderson avesse deciso di mettere finalmente la testa a posto? Se avesse deciso di dar seguito al cazziatone subìto quella mattina dal suo capo, arrabbiato con lui per l’ennesimo cartellino timbrato in ritardo, che vita avrebbe vissuto? Che cosa sarebbe successo se quel giorno Thomas Anderson fosse uscito dall’ufficio del suo capo e, preso dalla strizza di ritrovarsi disoccupato (la pillola blu che ognuno di noi prende tre volte al giorno in corrispondenza dei pasti), avesse deciso di darci un taglio con le avventure dell’alter ego Neo, hacker colpevole di praticamente tutti i crimini digitali per cui esisteva una legge nel 1999? Se avesse deciso di tornare in sé (di rimanerci), di arrivare puntuale la mattina e di smetterla di inseguire conigli bianchi tatuati sulle spalle di ragazze sconosciute, che storia sarebbe stata, la sua? Sarebbe stata la storia che poi comunque è stata, cioè quella raccontata in Matrix Resurrections: un’altra versione della Matrice sarebbe emersa dall’immaginazione binaria di un altro Architetto per contenere la vita dell’uomo che comunque si sarebbe rivelato come l’Anomalia per le macchine e l’Eletto per gli uomini. Magari in questa nuova versione della Matrice Thomas Anderson avrebbe fatto carriera dentro MetaCortex, chissà. Magari un giorno avrebbe deciso di mettersi in proprio, fondare una software house e diventare il più importante game designer della sua generazione. Magari questo e magari quello, ma alla fine l’inevitabile si sarebbe manifestato nella forma adatta alla sempre nuova ed eternamente rinnovabile prigione-panopticon: la storia di Thomas Anderson che diventa Neo sarebbe successa e sarebbe stata raccontata. «La scelta è un’illusione, lo sai già cosa devi fare» è la frase che spiega davvero il senso di Matrix Resurrections: non c’è nessun cucchiaio e nessuna pillola, solo tu con la testa inclinata per piegare l’uno o ingoiare l’altra.

«Lo senti quello, signor Anderson? Quello è il suono dell’inevitabilità. È il suono della tua morte. Addio, signor Anderson», soffiava l’Agente Smith nell’orecchio di Neo al termine del loro primo duello alla fermata della metropolitana. Matrix Resurrections è il suono dell’inevitabilità: sapevamo sarebbe successo e alla fine è successo, se la sirena suona allora il treno arriva. Nel primo atto del film le parole che spiegano questa inevitabilità escono dalla bocca del personaggio interpretato da Jonathan Groff, che dovrebbe essere l’Agente Smith di una nuova versione della Matrice (pensata per contenere anche la sua, di anomalia) ma che in realtà è il surrogato di Lana Wachowski, alla stessa maniera parte integrante e corpo estraneo del sistema. Warner farà un sequel di Matrix con o senza di noi, dice Smith al suo socio d’affari Thomas Anderson. Poco conta che nella nostra matrice Matrix sia una trilogia cinematografica e nella loro sia una serie videoludica. Non per niente il film si chiama Resurrections: nessuno sceglie di risorgere.

Può sembrare l’ipocrita autoassoluzione di una che è finita ad ammettere che così fan tutte, di sequel e proprietà intellettuali si campa e tutti dobbiamo campare («la scelta è un’illusione»). Ma in realtà è il messaggio (se un messaggio c’è) allo stesso tempo più disperante e rassicurante di tutto il film: se è vero che la scelta è un’illusione – benevola come era l’Oracolo della trilogia, malevola come l’Analista di questa appendice alla trilogia, e in questa differenza stanno probabilmente i ventidue anni passati tra l’inizio e il nuovo inizio di questa storia, sta quello che è sopravvissuto di noi tra la fine di quel millennio e l’inizio di questo – , è vero anche che quell’illusione permette l’esplorazione, la conoscenza di possibilità reali che altrimenti resterebbero nascoste, intrappolate tra le fibre strette del tessuto della Matrice. «Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più», diceva il Morpheus di quell’epoca svelando a Neo la pillola rossa e la pillola blu. «E tu questa la chiami scelta?», dice il Morpheus di questa epoca posto davanti alla stessa scelta tra verità e finzione. È la battuta attorno alla quale è costruita la parte disperata del film, un veleno per il quale però viene fornito l’antidoto entro lo scorrere dei titoli di coda, dentro la parte rassicurante del racconto. «Grazie per averci concesso questa possibilità» è l’ultima linea di dialogo di Resurrections, una riconciliazione (ovviamente pacifica ma inevitabilmente sottomessa) impensabile al termine della trilogia, opera saccente, sfacciata, arrogante, supponente, presuntuosa (e quindi memorabile) come non ce ne sono state altre. Se negli ultimi vent’anni il mondo è peggiorato perché in fin dei conti è rimasto immutato nei meccanismi mortali che lo muovono, Lana Wachowski è cambiata e con questo film si sente di dire che andrà tutto bene: «Grazie per averci concesso questa possibilità» poteva essere il finale del discorso che ha tenuto alla prima del film nel suo amatissimo cinema di Castro, quartiere-icona di San Francisco.

Yahya Abdul Mateen II, il “nuovo” Morpheus di Matrix Resurrections

Quel cinema, il cinema è stato il luogo e l’arte in cui Lana Wachowski andava a nascondersi ai tempi della quotidiana lotta con l’identità, gli anni in cui non sapeva cosa ne sarebbe stato di lei. E ora è il luogo in cui una regista transessuale a Hollywood celebra la sua stessa leggenda e si riappropria del mito che ha creato: da certi punti di vista Matrix Resurrections è un film inevitabile (anche) perché necessario, che è sempre un brutto aggettivo da usare nella discussione su un pezzo di arte ma tant’è: «la scelta è un’illusione». Necessario a strappare la pillola rossa dalle mani degli svitati dell’alt-right americana che ne hanno fatto particella elementare del loro universo alternativo e delirante, perché la Matrice fa questo: «trasforma tutto in un’arma» e nella nostra epoca non c’è arma più pericolosa della più generica, superficiale, avvincente, coinvolgente e convincente metafora di liberazione e restituzione a se stessi mai prodotta nella storia della cultura popolare, il Guerre Stellari della generazione che ha deciso che la pop culture era una cosa seria e che infatti l’ha resa, appunto, un’arma.

Ma se la scelta è un’illusione buona solo a realizzare una possibilità, che possibilità si è realizzata attraverso l’illusione di scegliere di fare un nuovo film di Matrix? Il problema è che è impossibile rispondere a questa domanda perché Matrix non è un film: non sopravvive come unità e non esiste in quanto parte. Matrix è, suo malgrado, tutto ciò che sta attorno: la metafora da decifrare, i rimandi religiosi e letterari e filosofici da cogliere, il mondo costruito e il mito fondativo e l’equilibrio tra le parti di una realtà che aveva in sé sia la verosimiglianza dell’alternativa che l’impossibilità della fantasia. Per dirla con una scena di Resurrections particolarmente riuscita nelle sue intenzioni metacinematografiche, Matrix deve concentrarsi sul liberare le menti e non può dilettarsi a coltivare le fragole. Lo dice Bugs, una delle nuove leve, a Niobe, la guerriera invecchiata. E nello scambio si può vedere il peso dell’opinione di Lana Wachowski che negli anni si è spostato da una parte all’altra, dalla rivoluzione irrequieta di Bugs alla pacificazione arrendevole di Niobe. Liberare le menti: è ciò che aveva condannato al fallimento sia Reloaded che Revolutions (film imperfetti ma tanto pretenziosi quanto ambiziosi, tanto sconclusionati quanto meritevoli), con i loro tentativi di chiudere il racconto in se stesso e di rispondere alle domande che a nessuno interessavano (quelle su Zion e sulla Città delle Macchine). È ciò che condanna a un inevitabile fallimento anche Resurrections, con il suo nuovo tentativo di chiudere il racconto in se stesso ma in un altro senso: in quello della limitatezza e dell’intimità, della semplicità e della modestia. Lana Wachowski sa di aver lasciato un’enorme eredità al cinema contemporaneo – il concetto di universo multimediale espanso ma coerente nel cinema mainstream non esisteva prima di Matrix, l’unica possibilità fino al 1999 sembrava l’espansione esplosiva e caotica di Guerre Stellari o Star Trek – ma sa anche che le eredità si possono soltanto cedere o perdere: quindi nemmeno ci prova a scimmiottare di nuovo John Woo, neanche ci pensa a ricominciare con la masturbazione della mente collettiva, neppure tenta di sintetizzare una nuova estetica mettendo assieme heroic bloodshed, club bdsm e Folsom Street Fair. Quell’eredità ormai è proprietà altrui e non ha senso «usare codice vecchio per raccontare una storia nuova». Lana Wachowski ha scelto ormai un’altra strada, una traiettoria artistica cominciata proprio con le feste orgiastiche di Zion e finita nella «videoarte arrapante e arrapata» di Sense8. Questa di Matrix Resurrections è solo una deviazione, “a trip down Memory Lane”, un déjà vu tenero e innocuo come un micio.

Ma in effetti Resurrections è anche una storia nuova nel senso di liberata. Tolto il bullet time e il kung fu, le esplosioni e gli inseguimenti (che ci sono ma sono minori e mediocri, un corpo aitante rimpicciolito e rallentato dal passare degli anni), resta la storia d’amore tra Neo e Trinity, il floppy disc nascosto dentro la copia di Simulacri e simulazione di Braudrillard, il centro minuscolo e quotidiano di un universo infinito e banale. Ma come sempre, se il fallimento inevitabile di Matrix sta nelle risposte che dà, il suo innegabile trionfo resta nelle domande che pone. Il nuovo Morpheus, a un certo punto, dice che «contro l’ansia, niente funziona meglio di un po’ di nostalgia». L’Analista, in un altro momento, ci rivela che «è molto più facile manipolare i sentimenti che i fatti». L’uno e l’altro parlano dentro un film nostalgico e sentimentale, una fuga dalla realtà che della realtà vuole essere commento. E quindi, ancora una volta, Matrix fa la stessa domanda, stavolta ancora più crudele perché nascosta sotto il panno spesso e grezzo della mediocrità: cosa pensi sia meglio, cosa credi funzioni per te? Realtà o finzione? Pillola rossa o pillola blu?