Ai movimenti contro l’overtourism la protesta non basta più

Iniziate in sordina prima della pandemia, le manifestazioni nelle città contro il turismo e l’airbnbizzazione sono esplose. Le amministrazioni comunali sono corse ai ripari, ma finora con scarsi risultati.

28 Agosto 2025

Questo articolo è tratto dall’ultimo numero di Rivista Studio, intitolato “Gran Turismo”. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online

L’inquietudine anti-turistica ha iniziato a diventare visibile a metà del decennio scorso, prima della pandemia. È apparsa sui muri delle città, le parole d’ordine originarie erano in catalano, perché Barcellona è stata un’avanguardia della scoperta che il turismo non è un’industria innocua, neutra, a basso impatto, che la frase «potremmo vivere di turismo» può rappresentare per le città una specie di incubo inflattivo a base di gente ubriaca in infradito, addii al celibato, trolley, traffico e cassette di sicurezza col codice a tre cifre. «Tourism massiu o veïnes», o i vicini di casa o il turismo di massa, questo fu il primo motto. Oppure, per essere più chiari, «your luxury trip is my daily misery», la tua vacanza di lusso è la mia miseria quotidiana.

Poi è arrivato il Covid, che probabilmente ha dato a molti abitanti dei centri storici europei l’immagine di un’alternativa: ecco com’è, respirare. E infine il terzo atto: dopo i lockdown il turismo si è ripreso tutto, con gli interessi. La crisi della manifattura europea è stata il crollo di un intero ordine economico per società a cui il turismo ha fatto da palliativo e stampella. Nel sud Europa il settore è ormai tra il 6 e l’11 per cento del PIL a seconda dei Paesi. Una volta i PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) erano debito pubblico e spread, ora sono volo Ryanair e stile di vita trasformato in commodity. Con un prezzo sociale altissimo, ovunque residenti e turisti sono entrati in competizione per risorse sempre più scarse: alloggi, strade, spazio, infrastrutture, a volte perfino l’acqua, perché siamo pur sempre in crisi climatica. L’inquietudine dei comitati locali è scalata in questi anni a idea di mondo e futuro. Sono arrivati manifesti, parole d’ordine, nuove categorie politiche come la «decrescita turistica» teorizzata a Barcellona. È nata una rete, si chiama Set, Southern Europe Network Against Touristification, con l’obiettivo dell’«internazionalizzazione della lotta alla turistificazione delle città e dei territori». Come spiega Anna Fava, portavoce di uno dei comitati che aderiscono a Set, il napoletano Resta Abitante, «il punto non è evitare il bed and breakfast abusivo. Il punto è che il turismo è un’industria e come ogni industria va regolata. E questo non sta ancora accadendo».

Proteste e proposte

Si legge qualcosa di simile in un’analisi della Harvard International Review su tutto quello che non stiamo ancora capendo di queste proteste dei residenti. «Non rappresentano necessariamente una rabbia anti-turismo, ma una rabbia contro la mancata gestione del fenomeno». È una delle complessità di questa onda politica, la difficoltà di distinguere i problemi sistemici dal livello individuale. Prendersela con i turisti a colpi di pistole d’acqua e male parole mentre cercano la posizione esatta del locker per aprire l’appartamento sottratto ai residenti a volte può essere liberatorio, ma è anche scivoloso. In fondo quella del turista è la più mobile delle categorie, oggi sono io, domani potresti essere tu. Un attivista che avevo contattato per discutere di questo pezzo non mi ha potuto parlare perché era in viaggio ma, ci ha tenuto a specificare nel suo breve messaggio di risposta, «non per turismo». Mi ha colpito, come se accanto alle nuove e stimolanti categorie politiche ci fossero quelle antiche della colpa e dell’espiazione, perché le brave persone non fanno il weekend europeo. E sarebbe uno spreco andare in questa direzione, perché il movimento anti-turistificazione ha un potenziale politico inedito.

Non serve solo a dare un cappello ai nimby del porticciolo, ma a riflettere sull’accesso agli spazi urbani, sull’impoverimento del mercato del lavoro, sul futuro del capitalismo, sulle innovazioni della democrazia partecipativa, sull’ecologia. Come spiega Anna Fava sull’internazionalizzazione della protesta napoletana, «essere in una rete europea ci permette di presentarci in modo diverso al territorio, di sprovincializzare la conversazione, di spiegare che questa è una battaglia globale e non solo di alcuni comitati locali». Il 2025 dell’anti-turismo sembra il 2018 dei movimenti per il clima, l’alba di un’idea politica che risuona a tutti e parla a tanti. Non casualmente il movimento ha preso alcune idee dall’ecologia politica, come quella delle zone di sacrificio. Non fa male alla salute o alla vita solo vivere accanto a un’acciaieria o una raffineria, ma anche vicino a un terminal crociere, alla rambla o nei Quartieri Spagnoli.

Volete Airbnb o l’Orientale?

Le proteste diventano fertili quando non sono solo un accesso alla soluzione di specifici problemi, ma anche uno sfogo per la ricerca di nuovi modelli di sviluppo collettivo, quando entrano direttamente sul mercato delle nuove idee di futuro. Il rischio del turismo per come è stato concepito negli ultimi anni di open to meraviglia ma anche di open to gentrificazione è quello insito in ogni monocoltura. In agricoltura, le monocolture riducono la varietà di specie su un territorio, rendendo più problematico l’accesso al cibo e alle tane. Gli ecosistemi diventano più fragili, più vulnerabili ai parassiti e alle malattie. Vale per il mais, e vale allo stesso modo per gli affitti brevi. Tornando a Napoli come caso di studio, spiega Fava che «questa è una città con cinque atenei, che hanno un ruolo importante, culturale, sociale ed economico. Ma sta diventando difficile non solo venire a studiare a Napoli, ma anche a insegnarci o fare ricerca». La nuova versione di «turismo di massa o vicini» del 2019 è: volete Airbnb o l’Orientale? È una formulazione brutale, ovviamente, perché una città contemporanea può avere sia gli affitti brevi che gli atenei secolari, il punto è che qualcuno deve governare le diverse esigenze.

In fondo la vera domanda che pongono i movimenti della rete Set alle amministrazioni cittadine e ai governi è: che controllo può avere la politica sulla sfera economica in nome di un interesse comune e non di parte? Non è nemmeno una domanda strettamente economica ma di funzionamento della democrazia. Il turismo delle piattaforme come ogni economia digitale è cresciuto muovendosi rapidamente e rompendo le cose, prima che si potessero trovare risposte soddisfacenti alla sfida della convivenza. L’epicentro della crisi reputazionale del turismo è stato la casa, perché è stato il travaso di alloggi dal quattro più quattro al weekend a diventare la spia più vistosa del problema, infatti i movimenti legati all’abitare sono stati i primi a vedere il potenziale politico del no alla turistificazione.

Socialismo tascabile

Sarah Gainsforth, scrittrice e ricercatrice, che si occupa di lotte per la casa, spiega: «A un certo punto è apparsa la consapevolezza che il turismo è un veicolo di estrazione di valore e privatizzazione degli spazi, e che c’è la possibilità di ripensare attraverso i problemi del turismo le città in chiave anticapitalista». In un certo senso, le battaglie anti-turistificazione sono una versione iperpratica delle lotte anti capitaliste, una forma di «socialismo tascabile» che può darsi un orizzonte strategico ampio, ma che può anche portare a casa vittorie tattiche concrete, in grado di dare sollievo a quartieri e comunità sollevandoli dalla sensazione che sia tutto perduto o inutile.

I regolamenti di Berlino, Barcellona, ma anche di Bologna e Firenze nascono dalle lotte dagli attivisti e dalle loro alleanze con il mondo accademico, un legame che ha permesso di far funzionare una filiera che si vede di rado ormai, quella tra i social forum e le istituzioni, con proposte che nascono dal basso e negli anni diventano politiche e poi policy. Secondo Gainsforth, il salto di qualità da fare è «superare il tic culturale che ha portato ai giorni di Roccaraso, perché è il turismo di lusso a fare molti più danni sociali e ambientali di quello popolare». Anti-turistificazione non vuol dire anti-turisti, soprattutto non con lo spirito di derisione classista che ha colpito i gitanti napoletani portati in Abruzzo da Rita De Crescenzo. Non è il flusso di pullman di persone che vogliono vedere la neve per la prima volta il problema, ma la nave da crociera, lo yacht che dalla costiera amalfitana attracca a Napoli o il flusso dei jet privati, o la speculazione su vasta scala, la trasformazione delle città in eventifici.

«Bisogna trovare il modo di intrecciare altre mobilitazioni, altre classi sociali, altrimenti il rischio è avere un piano di elaborazione altissimo, ma ancora troppo staccato dalla realtà. C’è una grande potenzialità, ma bisogna saper parlare sia verso l’alto che verso il basso».

Meglio essere turisti o mete turistiche?

Voli low cost e affitti brevi hanno contribuito alla democratizzazione del turismo. Poi qualcosa è cambiato, viaggiare è diventato costoso, difficile, dannoso. Ma il turismo non è diminuito, anzi. Ne parliamo sul nuovo numero di Rivista Studio, "Gran Turismo", appena arrivato in edicola.

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