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Per fortuna c’è un altro libro di Leonard Michaels

È Potendo, li avrei salvati, edito da Racconti edizioni, una raccolta di alcune delle più belle short story scritte dall'autore di Sylvia.

di Giorgio Biferali

Ci sono tassisti che vengono derubati, ragazze che empatizzano con i manichini che vedono dietro alle vetrine dei negozi, ragazzi che scambiano delle lenzuola stese all’aria aperta per dei fantasmi, c’è la vita di sempre nei racconti di Leonard Michaels. C’è lo sguardo di chi è nato in una città come New York, la lingua di chi, fino all’età di cinque anni, parlava solo yiddish, di chi, pur avendo scritto due romanzi (Il club degli uomini e soprattutto il bellissimo Sylvia), ha sempre creduto nella forma della short story, più profonda e più seria di quella long, di chi, come si vede in questa raccolta (inedita finora in Italia) dal titolo evocativo Potendo, li avrei salvati (pubblicata da Racconti edizioni, traduzione a cura di Luca Briasco e Roberto Serrai), ha concepito il racconto come una forma pura, magica.

Ci sono racconti tradizionali, che seguono una trama, le vicende di uno o più personaggi, ci sono memoir, riflessioni, pensieri, piccoli saggi narrativi, frammenti che somigliano a delle tessere di un puzzle. La purezza e la magia vengono fuori nei dettagli, nello sguardo che, come diceva qualcuno, diventa un modo di esistere, di essere in mezzo agli altri. Michaels mostra, e ogni tanto dichiara esplicitamente, il suo amore per gli emarginati, che gli sembrano “originali e aristocratici”, più seri della gente normale, anche se spesso le due categorie, così astratte, tendono a mischiarsi, a confondersi. Possiamo ritrovarci un ragazzo che ha preso dei bei voti a scuola e che, come premio, riceve «un piacere scuro e brillante», quello di andare al cinema. Philipp Liebowitz, alter ego dell’autore, che di mestiere fa il commesso in un negozio di scarpe o l’editore, che nonostante sembri infelice, a quarant’anni e passa, fa l’amore come un adolescente. Karl Marx, che passeggia per Parigi fumando sigarette, o Trockij, che sta scrivendo che «se vivesse di nuovo, eviterebbe certi errori». Nachmann, il matematico che occupa più delle ultime cento pagine della raccolta, scritto di getto da Michaels e finito sulle pagine di Paris Review e del New Yorker, che non crede nelle storie d’amore che durano per sempre, nell’esperienza come saggezza, ma che nonostante tutto sa come mettersi nei panni degli altri, come quando passeggiando incontra un uomo che gli sembra abbia bisogno di raccontare, di raccontarsi: «Era pieno di cose da raccontare, pieno di ricordi. Sembrava che gli sorgessero da dentro e premessero dietro i suoi occhi, come se volessero esplodere e rendersi visibili».

E anche i ricordi di Michaels esplodono, quando si mischia ai suoi personaggi e si intromette nelle sue storie. Gli effetti delle droghe che, a parte il sesso, risultano noiosi, le telefonate a New York per parlare con i suoi genitori e ritrovare «il loro yiddish, il loro inglese, la loro logica», le partite di basket giocate per la NYU, la fortuna di ascoltare Dylan Thomas, Lester Young e Billie Holiday insieme, di ballare il cha-cha-cha con lo smoking a una festa di fine anno a Hollywood, di girare per Manhattan su una Porsche gialla insieme a Jack Kerouac.

Anche quando si affida alle similitudini, Michaels lo fa in modo sorprendente, inaspettato: ci si può sentire tranquilli come un gangster, avere gli occhi come uccelli su un filo della luce, leggere recensioni «come certa gente si avventa sui leccalecca». Dietro alle piccole grandi lezioni di scrittura che l’autore ci offre, senza volerlo, si nascondono dei piccoli grandi segreti sulla nostra vita, che acquisisce ritmo, colore, senso grazie a quelle degli altri. Una donna racconta il sogno che ha appena fatto, ma la sua voce rimane neutra, per evitare che interferisca con quello che ha appena visto. Due amici parlano, «Raccontami tutto», le dice lui, «Devo pur tenere qualcosa per me», risponde lei. Lui crede che parlare dei propri sentimenti sia l’unico modo per non perderli, lei, invece, è convinta che una volta usciti non sono più nemmeno sentimenti, ma diventano chiacchiere per qualche stronzo che «le infilerà in un romanzo». Da che parte stare, allora? Nella scrittura, come nella vita, bisogna avere un po’ di coraggio, lasciarsi andare, sì, ma senza dimenticare le proprie paure, i propri traumi, la bellezza di tutte le cose che ancora dobbiamo scoprire. Ricordandoci che gli scrittori, però, a differenza di tutti gli altri, «muoiono due volte, prima nel corpo, poi nelle opere, eppure tirano fuori un libro dopo l’altro, come pavoni che fanno la ruota, uno splendido lampo di colore presto trascinato di nuovo nella polvere».