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L’anti-moda di Olivier Saillard

Lo storico e curatore ha portato a Milano tre performance che mettono in discussione il senso della moda di oggi.

di Lorenzo De Angelis

Ex direttore del Palais Galliera di Parigi, Olivier Saillard è storico della moda e curatore di mostre e performance che hanno cambiato il modo di intendere la moda all’interno dei musei. Oggi dirige la Fondation Alaïa, è direttore creativo di J.M. Weston e dal 2018 porta avanti Moda Povera, un progetto artistico e pedagogico che applica le tecniche dell’haute couture a capi umili e ordinari. Lo scorso weekend, Saillard ha portato in Triennale, a Milano, tre performance in occasione del programma Carte Blanche a Olivier Saillard, organizzato da Fondazione Cartier e Triennale Milano nell’ambito della mostra di Ron Mueck. Il programma si è aperto con Moda Povera VI: les vêtements des autres, un’azione performativa inedita pensata appositamente per gli spazi di Triennale. Per il sesto capitolo del progetto, Saillard ha infatti ideato una performance a cui lo spettatore può partecipare offrendo in prestito un indumento a cui è affezionato, proveniente dal proprio guardaroba o da quello di una persona cara. Come si legge nel testo di presentazione, sono accettati vestiti di qualsiasi tipo, «usati, di tutti i giorni, banali o ordinari, abiti di moda, divise da lavoro, abiti da cerimonia», purché scelti per il ricordo e l’affetto che rappresentano agli occhi di chi li presta. Poco prima dell’inizio della performance, i capi degli spettatori sono stati raccolti da un gruppo di studenti che portavano alle mani i guanti bianchi usati dai conservatori museali per maneggiare i preziosi e fragili capi d’archivio che compongono le collezioni dei musei.

Successivamente, questi “vestiti degli altri” sono stati affidati da Saillard ai corpi e alle sensibilità di una straordinaria line-up di dieci modelle (Christine Bergstrom, Kristina de Coninck, Axelle Doué, Charlotte Flossaut, Claudia Huidobro, Sonia Ichti, Ania Martchenko, Anne Rohart, Violeta Sanchez, Amalia Vairelli) che per anni hanno lavorato al fianco di designer come Yves Saint Laurent, Martin Margiela, Thierry Mugler e Yohji Yamamoto. Durante la performance, ogni modella raccoglie con cura il capo che è stato posizionato ai suoi piedi, lo studia e lo esplora, accarezzandolo delicatamente e cercando in esso le tracce lasciate dal proprietario. Infine lo indossa e sfila in mezzo al pubblico, interpretando ogni capo attraverso un ricco repertorio di gesti e pose. Il risultato è un’anti-sfilata di moda – «Non abbiamo niente da vendere, niente da mostrarvi oltre a voi stessi e i vostri vestiti» ha detto Saillard al pubblico – fatta non di nuovi prodotti stagionali ma di capi ordinari appartenenti al passato, celebrati per la loro poetica ordinarietà e per la loro capacità di instaurare un rapporto intimo ed emotivo con il corpo che li abita.

Come sottolineato da Angelo Flaccavento su Business of Fashion, «l’emozione è fondamentale per Saillard», e a renderlo ancora più chiaro è la seconda performance della rassegna. Moda Povera V: les vêtements de Renée è l’omaggio che Saillard fa alla madre Renée, scomparsa tre anni fa. Gli abiti che le sono appartenuti, familiari nella loro modestissima normalità, sono stati modificati attraverso le tecniche dell’haute couture per assumere una nuova vita. Ciò che ne è venuto fuori è una collezione fatta di t-shirt drappeggiate, cappotti trasformati in tailleur o mantelle, cardigan ricavati dall’unione di due sciarpe e guanti ritagliati da vecchi fazzoletti. Uno ad uno, i capi vengono indossati dalla modella Axelle Doué in una lenta cerimonia che procede nel religioso silenzio tipico della presentazioni di alta moda di una volta: Saillard le porge gli abiti e, quando serve, la aiuta a infilarli; una volta vestita, la modella sfila di fronte agli spettatori e a ogni cambio Saillard le spazzola dolcemente i capelli argentati. Ogni abito è accompagnato da descrizioni lette a voce alta che sono in realtà brevi poesie sentimentali – “Trittico dei sentimenti”, “Archivio monocromatico di lei” o “Catasto intimo” per citare qualche titolo – scritte dallo stesso Saillard.

Moda Povera è la risposta di Saillard all’attuale sistema della moda di cui da tempo denuncia l’iper produzione e l’estrema, insostenibile, velocità. Le sue performance sono pensate come spazi in cui la moda vive, fuori da ogni prospettiva commerciale, nella sua essenzialità: un abito e un corpo. Ed è nella couture che Saillard riconosce il luogo privilegiato del legame intimo ed emotivo tra questi due elementi – una «couture accessibile, in cui sono i princìpi a contare, e non i prezzi» precisa in un’intervista su La Repubblica. Perché in effetti l’alta moda è, nonostante i red carpet e le celebrity e i tentativi dei moderni couturier di attualizzarla attraverso un linguaggio più contemporaneo e universale, qualcosa a cui solo una minuscola percentuale di ricchissimi può accedere in qualità di consumatori. Eppure mai come nell’ultima stagione, la couture sembra aver catalizzato l’attenzione di tutti, dentro e fuori dall’industria. Dallo scorso 26 gennaio, ad esempio, si continua a parlare della collezione Artisanal di Maison Margiela firmata da John Galliano: la critica ha parlato di un momento di svolta nella storia della moda recente mentre la community dell’High Fashion Twitter ne ha minuziosamente analizzato le similitudini con il lavoro di Galliano da Dior, e su TikTok gli utenti cercano di replicare il make-up di Pat McGrath e la camminata di modelli e modelle. A unire tutti c’è la sensazione di aver assistito, dopo anni, a una sfilata finalmente capace di emozionare. Le conversazioni che ne sono scaturite testimoniano uno sguardo nostalgico verso una forma di moda che non esiste più, in cui la creatività era libera di esprimersi in manifestazione sontuose e personali, non sottomesse alla necessità di creare collezioni digeribili e quindi facilmente vendibili.

A questo proposito, Vanessa Friedman si chiedeva sul New York Times «se la smisurata reazione abbia a che fare non tanto con Galliano quanto con le nostre paure rispetto alla condizione della creatività contemporanea. […] Paure relative al fatto che, lungo la strada che ha portato ai super brand, ai miliardi di fatturato e alla globalizzazione, abbiamo perso qualcosa di essenziale e non sappiamo come recuperarlo.» Per Saillard, che osserva l’industria da una posizione laterale e con uno sguardo nostalgico e forse un po’ anacronistico, quel qualcosa che abbiamo perso è il carattere sentimentale e poetico della moda. E in effetti, nelle performance di Saillard gli abiti stessi non sono necessariamente oggetti tangibili fatti di tessuto, ma possono anche più semplicemente essere ricordi e parole. L’ultima performance presentata da Saillard in Triennale (e la prima che ha creato nel 2006) è in questo senso la più radicale. Salon de Couture è una sfilata fantasma in cui gli abiti non ci sono proprio. Nella passerella c’è solo Violeta Sanchez, musa e modella di Yves Saint Lauren e Helmut Newton, che in veste della direttrice del Salon, evoca gli abiti dalla prima alla sessantasettesima uscita attraverso descrizioni che ironizzano sul lessico tipico dell’alta moda di un tempo. Attraverso la voce suadente e i gesti teatrali di Sanchez, gli spettatori vedono sfilare davanti a sé un «vestito di scarsa moralità per pranzare in tranquillità in flanella d’estate» o un abito «da depressione nervosa in vapore di mousseline cenere con pois stampati», accompagnato da «scarpe da impazienza in pelle senza scopo». In un’intervista a Olivier Zahm su Purple, Saillard riassumeva il suo lavoro così: «Ciò che cerco di fare è rivelare l’essenza della moda: una donna è bellissima, un abito è importante; l’assenza degli abiti è anch’essa bellissima».

In copertina, una foto di Gianluca Di Ioia ©