Musk, Bezos, Zuckerberg, Altman, Cook, Pichai: con il ritorno di Trump, i tech bro hanno svoltato a destra e deciso di prendersi il mondo.
Adam McKay dieci anni fa scrisse e diresse un film il cui impatto, nel suo cinema e in quello della Hollywood più impegnata e politica, non si è ancora riusciti a quantificare. Verbosissimo, iperattivo, caustico, La grande scommessa racconta la rinascita (non che fosse mai morto) di un villain: l’americano ricco ricchissimo, con le mani in pasta in start up, fondi fiduciari e ovviamente aziende tecnologiche. Erede spirituale tanto di Wall Street di Oliver Stone quanto di The Social Network di Aaron Sorkin e David Fincher, La grande scommessa raccontava la crisi dei mutui sub prime del 2008 dalla punto di vista di un gruppetto di uomini della finanza che capisce con largo anticipo cosa sta per succedere. Dopo essersi guardati negli occhi e essersi chiesti: «Possiamo davvero farlo?», i protagonisti decidono di fare una grande scommessa, appunto, contro l’economia statunitense, i piccoli risparmiatori, la finanza globale.
È un film che, più o meno consapevolmente, ha ridato linfa a un genere, il finance thriller, e a un archetipo, il nuovo ricco sempre più cattivo. Persone che scelgono il profitto, che decidono di mettersi dalla parte di chi si arricchisce a spese degli altri e scoprono che, tutto sommato, la cosa non è così spiritualmente vessante. Specie se al peso che preme sul petto corrisponde il contrappeso di un conto corrente multimilionario. In una società in cui il denaro ha sostituto la politica, Dio, tutto, è difficile argomentare che sì, uno è ricco, ma è moralmente deprecabile.
Jesse Armstrong dopo Succession
Dieci anni dopo Adam McKay, per il suo esordio registico, Mountainhead, Jesse Armstrong decide di raccontare gli eredi spirituali e finanziari di quel gruppetto di investitori scafati. Sul racconto dei ricchi e della “quarta dimensione” in cui vivono, Armstrong ha fatto fortuna: questo film era attesissimo in quanto suo ritorno in scena dopo Succession, la serie con la quale ha creato un linguaggio registico e una scrittura pensata proprio per immergere lo spettatore in un mondo alieno, fatto di regole, patimenti, angosce altrimenti incomprensibili. Concepito come un film breve e distribuito esclusivamente via streaming (negli Usa è uscito su Hbo Max, in Italia è disponibile su Sky e Now), senza tante fanfare, il progetto ha anche il compito di togliere al suo creatore il fardello del dopo Succession, una serie considerata perfetta e divenuta simbolo di questo decennio televisivo, aiutandolo a superare il difficilissimo confronto con se stesso. Per questo motivo, probabilmente, Mountainhead è puramente derivativo a livello stilistico, riprende quasi pedissequamente quella regia con la camera a spalla (ma in maniera meno estrema) e quella scrittura fatta di pagine e pagine di dialoghi.
Guardando oggi agli investitori di La grande scommessa ma anche alla famiglia Roy – dopo essere stati anche nei resort di The White Lotus e in crociera con Ruben Östlund in The Triangle of Sadness – quei guru della finanza che scommettono contro gli Stati Uniti fanno quasi tenerezza. Mountainhead è la deriva più estrema e – si spera – il risultato finale di una lunga e sfortunatissima serie di eventi. I suoi protagonisti sono quattro maschi bianchi etero cis che hanno creato aziende legate al mondo della tecnologica così gigantesche a livello economico, così pervasive a livello sociale, da renderli degli imperatori che a colazione possono discutere di quale Stato europeo “spegnere” così da impartire una lezione all’intero continente.
Shakespeare nella Silicon Valley
Esattamente come in Succession, la storia è una sorta di dramma shakesperiano fatto di tradimenti, confronti e lotte finanziarie che si consuma in un villa isolata tra le montagne innevate, dove i quattro si ritrovano per il loro annuale fine settimana tra maschi alfa che giocano a poker e scrollano distrattamente le ultime notizie sull’Apocalisse da loro stessi scatenata. Uno di loro, infatti, ha appena lanciato una nuova versione della sua AI in grado di creare video fasulli così credibili da mandare in crisi un paio di governi democratici nel tempo che gli ci vuole per arrivare da casa al resort (ovviamente con jet privato). La soluzione sarebbe interna al gruppetto: un altro infatti ha sviluppato un potentissimo filtro in grado di smascherare i fake, uno strumento che potrebbe liberare i media e i social dei video falsi che è impossibile ormai distinguere dai veri. Non vuole però cedere all’amico/nemico, anzi: la sua priorità non è salvare il mondo ma estromettere il rivale dalla sua stessa azienda.
Non ci vuole un acume superiore per vedere in controluce i grotteschi ripensamenti e le sparate di Elon Musk, di Mark Zuckerberg, di tutta una generazione (che oggi chiamiamo broligarchia) di imprenditori di Big Tech succeduta ai pionieri. Così come il cinema di Östlund e McKay, Mountainhead è respingente e a tratti disgustoso da mandar giù, perché il suo unico, brutale obiettivo è mostrarci la disumanità dei suoi protagonisti, creature di una sgradevolezza difficile da riassumere a parole.
Laddove infatti Succession riusciva nell’impresa impossibile di farci empatizzare, soffrire e tifare per persone sostanzialmente disgustose come i membri della famiglia Roy, prendendosi il tempo necessario per farci condividere i loro bizzarri patimenti e problemi, qui tutto è respingente. I quattro protagonisti di Mountainhead sembrano essersi completamente dimenticati di appartenere alla razza umana. Annoiati dal mondo a parte da cui osservano il collasso di nazioni che con una app potrebbero salvare, sono stimolati solo dal Risiko tra i loro portafogli finanziari, intrecciati in un’amicizia vischiosa e tossica, in cui chi non arriva al miliardo di dollari di reddito è un poveretto, chi ha un cancro incurabile uno sfigato.
Cattivi e noiosi
Il limite di Mountainhead, però, è proprio questo: non ha nulla da offrirci a parte l’insopportabile sgradevolezza dei suoi protagonisti. Armstrong stesso vorrebbe distruggerli più che scomporli, ma rimane affascinato dalla commistione di riferimenti all’impero romano, a Kant e ai meme di Internet da lui stesso creata. Armstrong scoperchia qui il vaso del tech ma finisce per trovarci dentro il vuoto totale, senza speranza, di valori, di sentimenti, di umanità. L’unica reazione possibile è l’autoindulgenza, la vanità. A guardare il vuoto la sensazione dovrebbe essere quella dell’orrore indefinito e infinito, che invece Armstrong compie l’errore di riempire con la sua involontaria fascinazione per un’élite sempre in equilibrio tra la dominazione mondiale e il tracollo finanziario.
Sentirsi superiori al nulla, usare la propria intelligenza per dare un ordine e avvolgere di fascino la pochezza è quasi una sorta di coping mechanism per sopravvivere a questi personaggi. Un trucco così ben eseguito che però finisce per ingannare pure il prestigiatore: Armstrong rende questi personaggi più seduttivi di quel che sono in realtà (nella realtà che tutti viviamo e conosciamo), pur di non dar loro il colpo di grazia. Tutto pur di trovare un senso e una giustificazione, tutto per continuare a metterli al centro di queste narrazioni.
Contro certi mali lo sberleffo non basta: serve il lanciafiamme. Provoca per questo un certo senso d’angoscia ritrovare qui Steve Carrell, che faceva parte del cast di La grande scommessa, quasi come fosse il nume tutelare di questo genere. In Mountainhead, forse non a caso, il suo personaggio viene chiamato affettuosamente Papa Bear, papà orso. Per questioni anagrafiche è sopravvissuto alla prima generazione di magnati del tech e ha imparato il gergo e le movenze della seconda, a cui fa da padrino, aspirando a essere il primo immortale della storia, se il suo cancro gliene darà il tempo. Aspirare all’immortalità, quando il mondo potrebbe non sopravvivere al weekend di poker e chiacchiere tra i quattro che gli hanno dato fuoco.
Quello che Mountainhead non accetta e che lo condanna a essere un progetto non riuscito è che, per quanto si giri e rigiri tra le mani i suoi personaggi, questi non saranno mai i villain crudelissimi, geniali, angoscianti che prova a dipingere. Questo perché le premesse di una grande villain cozzano con le premesse del film: nessun grande cattivo nella storia della letteratura si è mai ritrovato così distante dalla sua umanità come le persone/personaggi che Armstrong racconta qui. Il risultato è che, alla fine, si scopre che i tech bro non sono buoni nemmeno a fare i villain.

Pubblicato nel 2000, acclamato, dimenticato, ripubblicato e riscoperto nel 2016, inserito tra i 100 migliori romanzi del XXI secolo dal New York Times, L'ultimo samurai è asceso allo status di classico nonostante una travagliatissima storia editoriale.