Stili di vita | Moda
È la moda maschile a cambiare il paradigma
Come negli ultimi quarant’anni la moda uomo ha prodotto le innovazioni più radicali, agendo sui corpi e sugli immaginari.
Una camicia di seta rossa, allacciatura sulla schiena. Le lunghe strisce che si intrecciano in un fiocco morbido avvolgono tutto il collo. Il ragazzo dai capelli lunghi la indossa infilata in pantaloni rilassati con una cintura di cuoio. Una immagine icastica che diventa manifesto indossabile di un nuovo modo di definire la mascolinità. È Alessandro Michele nel suo esordio come direttore creativo di Gucci a dare forma poetica a quella costellazione in movimento che vede maschile e femminile non come generi che identificano due fisicità e mentalità diverse, ma come attitudini, che mescolano le caratteristiche di entrambi arrivando a vestire un corpo che culturalmente perde gli attributi del genere stesso.
Così è nel territorio dell’abbigliamento maschile (da quella definizione di uomo moda, rivoluzione prima di tutto italiana) che si precisa l’idea di fluidità di generi che ormai innerva le forme della cultura contemporanea, diventando laboratorio delle nuove forme del vestire. Perché se, citando Nicolas Bourriaud, «viviamo in tempi in cui nulla più scompare, dove tutto si accumula per effetto di una archiviazione frenetica; tempi in cui le mode hanno cessato di succedersi, per coesistere sotto forma di tendenza di breve durata, dove gli stili non rappresentano più dei marcatori temporali ma dislocazioni effimere che si producono indifferentemente nel tempo o nello spazio…», la questione non è quanto moderna o nuova possa essere una delle tante collezioni che sfilano in un anno nell’universo-mondo, ma quanto gli oggetti che sfilano siano in grado di essere impronta e simultaneamente sismografo del proprio tempo.
I corpi maschili che si sono rincorsi negli ultimi quarant’anni sono stati plasmati dagli immaginari della moda. Possiamo tranquillamente affermare che è stata la moda maschile a produrre le innovazioni più radicali perché sostanziali. C’è stata la silhouette ammorbidita di Armani, quella scultorea e iper-gay di Versace (e Bruce Weber). Poi i corpi sottili, adolescenziali del quarto sesso di Raf Simons, fino alle concettualizzazioni a-sex di Hedi Slimane per Dior Homme, che a cavallo dei due secoli hanno superato la dicotomia di genere, smaterializzando i corpi, e facendo transitare liberamente il tailleur dalla donna all’uomo, e di nuovo alla donna. Nello stesso momento, i ragazzi di Thom Browne hanno riscoperto gli elementi della divisa dell’uomo borghese in una versione stravolta nelle proporzioni che precisava la silhouette per contrastare l’ascesa di quell’attitudine ammaccata e stropicciata che identifica l’hipster.
Siamo arrivati a una moda definita in maniera semplicistica genderless, che è tale perché mescola riferimenti ai generi in modo disinibito, recuperando suggestioni che evocano le controculture degli anni Settanta del Novecento, selezionando corpi e desideri, senza falsi moralismi, che si mescolano, si intrecciano, si sovrappongono. Richard Martin lo aveva detto: comprendere la moda significa riconoscere un paradigma di modificazioni che non sono rivoluzionarie. La moda non coincide con le grandi sovversioni della couture. È più simile all’architettura o al design, che alle avanguardie artistiche. In questo senso, la moda maschile è oggi il luogo privilegiato per riflettere sui cambiamenti modulati, sulle variazioni sottili che attraversano il tempo registrandone i desideri e si esprimono nel vestire, agendo sulle forme del corpo e sugli immaginari che li raccontano.