Attualità

Dietro i poster di Milton Glaser

Un libro raccoglie le illustrazioni del grande designer che inventò il logo di New York: i 50 anni di una carriera epocale.

di Tommaso Tagliabue

La New York del 1976 non era una città sicura: sempre più cittadini emigravano dai quartieri più pericolosi per andare a vivere nei suburbs,  lontano dall’atmosfera post-apocalittica che contagiava anche Manhattan. Per risollevare la reputazione della città, il Department of Commerce commissionò una campagna destinata ad entrare nella storia del turismo americano. Fu così che nacque il logo “I love NY”, che in un cuore e tre caratteri scritti in American Typewriter riassumeva un sentimento che sarebbe poi esploso. Milton Glaser, l’autore di quel logo, mai si sarebbe aspettato un successo comunicativo di questa portata: un simbolo che dopo quarant’anni è ancora stampato sui souvenir negli aeroporti e sulle magliette dei turisti più ossessionati con l’America.

Nella sua lunga carriera di designer, Milton Glaser ha realizzato tante collaborazioni con aziende importanti, dalla Olivetti alla Trump Organization. Nei primi anni 2000 conobbe Trump quando era “solo” un magnate americano alle prese con una nuova linea di vodka. Fu uno scambio rapido, lui gli fece uno sketch e ricevette il compenso, e il risultato fu un cuboide d’oro con una grande T al centro. Ma i suoi lavori più famosi sono stati i poster pubblicitari: linee elementari riempite di colori accesi, di forte impatto sul pubblico, che si trattasse di elementi d’arredo o di icone pop. Al MoMA e al Centre Pompidou sono stati oggetto di mostre personali e ammirati come fossero quadri, anche se Glaser ne ha sempre rimarcato la differenza. «Il design e l’arte hanno obiettivi diversi», ha detto recentemente ad AnOther. Gli ambiti si distinguono per la premeditazione: nel design è condizione necessaria, mentre nell’arte è il più delle volte evitata, subordinata.

 

 

Eppure nei suoi lavori il confine è labile. L’intenzione lo ha portato a creare rappresentazioni immaginifiche che sembrano nate da sé, figure nelle quali il pretesto del prodotto si scorge solo dopo la contemplazione delle forme e degli accostamenti cromatici. In un’intervista di due anni fa per It’s Nice That Glaser ha affermato l’importanza della buona fede del designer: dopotutto, anche se si tratta di pubblicità, le intenzioni di chi disegna contano. «I graphic designer sperano che i propri lavori abbiano un qualche impatto futuro», ha spiegato commentando il successo del logo per New York, una sorpresa positiva tra le sue tante commissioni iconiche ma contingenti. «Se avessi fatto qualcosa di così popolare promuovendo l’uso delle sigarette, non ne sarei contento. Dal punto di vista umano, sarebbe stato un disastro».

La casa editrice Abrams ha raccolto quasi tutte le illustrazioni di Glaser in un ricco volume che esplora il suo lavoro dal 1965 al 2017. Tra le pagine del libro, dal titolo Milton Glaser Posters, si fondono le intenzioni commerciali del design e lo stile di un’artista epocale. Glaser ha prodotto più di 450 poster nel corso della sua carriera, tra i quali uno dei più celebri è forse il tributo a Bob Dylan nel 1966. La tavola – il profilo nero del cantante su sfondo bianco, con onde psichedeliche di colore al posto dei capelli – è ispirata all’autoritratto bicromatico di Marcel Duchamp, che Glaser ammirava per la schietta divisione dello spazio priva di ogni complicazione. «L’ho reso più Dylan usando l’Art Nouveau. Aveva tutte le caratteristiche che volevo avesse Dylan: complessità, semplicità, potenza», ha raccontato a proposito di quella creazione. Il designer lo progettò nel 1966 sotto la direzione grafica dei Push Pin Studios, il consorzio di grafici e illustratori che fondò insieme a Seymour Chwast, Reynold Ruffins e Edward Sorel. Il collettivo riuniva stili diversi, muovendosi tra sperimentazione e tradizione, ma sempre contrapponendo all’impronta tipografica (di moda in Germania) la pura illustrazione figurativa, spesso venata d’ironia. Chwast riuscì ad accostare la guerra in Vietnam all’alito cattivo, nel suo manifesto pacifista End Bad Breath.

Tra i luoghi di Glaser c’è sempre l’Italia, non solo per il sodalizio storico con Olivetti, ma anche per le contaminazioni artistiche ai tempi della sua borsa di studio a Bologna. Qui, all’Accademia delle belle arti, ha incontrato Giorgio Morandi, dando vita a un rapporto che verrà documentato dalla Galleria d’Arte Moderna della città nel 1989. È stato probabilmente il maestro bolognese a fargli conoscere Piero della Francesca, il pittore rinascimentale da Glaser ammirato per l’intelligenza sublime. Nel suo studio, appesa alle pareti gialle, c’è una riproduzione divisa in quattro parti del ritratto di Federico da Montefeltro, il duca dal famoso naso adunco.

Dal Rinascimento Glaser ha assorbito la bidimensionalità statica utile al design, presente in molti suoi lavori che giocano sull’impatto grafico immediato. Uno dei suoi poster più efficaci è la pubblicità di una linea di cuscini a forma di pasta, progettati dal marchio Heller. Nell’immagine ci sono due colori, un titolo e una proiezione ortogonale di quello che sembra un raviolo, smentita dalla dimensione indicata sul lato, 60 cm. L’illusione è seconda solo al sarcasmo, a volte la chiave dell’intera interpretazione dei suoi poster. Lo stesso accade nel gioco di parole in Art is… Whatever, una pubblicità per la School of Visual Arts di New York. Secondo la spiegazione che ne fornisce, ogni oggetto – se posto nel giusto contesto – può diventare arte, ma solo se osservato da qualcuno che vi proietti sopra una qualche interpretazione. Così ha fatto Glaser per tutta la vita, interpretando gli oggetti da pubblicizzare con la sua mentalità da disegnatore, a volte schematica, altre volte onirica, quasi sempre ironica.