Stiamo faticosamente aprendo, ribaltando, ripensando le coppie. Il libro "3. Un’aspirazione al fuori" ci suggerisce che, per migliorare le relazioni sentimentali, potremmo guardare a quelle amicali.
Da maggio a settembre è difficile aprire Instagram senza trovare, nel feed, almeno una foto di un abito bianco che aspetta di essere indossato, di un gruppo di amici già un po’ alticci, con la cravatta allentata, o di una ragazza che si sbraccia per prendere al volo un bouquet che, forse, le cambierà la vita.
Sono sposata da qualche anno, ma capita raramente che quei primi piani di anulari stretti in un cerchiolino d’oro mi facciano pensare al mio, di matrimonio. Più spesso mi riportano a quando avevo quattordici anni ed ero sicura che intorno ai sedici, massimo diciassette, mi sarei sposata. Facevo coppia fissa da pochi mesi con quello che presentavo fieramente come “il mio fidanzato” quando un pomeriggio, fra i viali del parco Sempione, gli confessai con un po’ di timore quel mio desiderio di tulle bianco e confetti. Lui, che era su posizioni piuttosto conservatrici – le stesse su cui dovevo essere io, d’altronde – non ci vide nulla di strano. Al contrario, l’idea di un matrimonio prima della maggiore età (per me, lui era più grande) lo entusiasmò. Ci sembrava irresistibilmente romantico che il primo amore potesse durare per sempre, e piacevolmente retrò prometterci che ci saremmo stati fedeli sempre. Che quel sesso che avevamo appena scoperto non l’avremmo mai fatto con altre persone, mai nella vita, che ci saremmo appartenuti fino alla fine e che il mondo, con tutte le sue tentazioni, sarebbe rimasto innocuo sullo sfondo. Era, a suo modo, un pensiero pacificante, e dolce.
Final fantasy
Com’era prevedibile, il mio sogno d’amore non fece in tempo a realizzarsi. Dopo un paio d’anni scoprii che il ragazzo che avrebbe dovuto giurarmi amore eterno aveva una tresca con una compagna di corso – più grande e, credo, meno sulle nuvole di me.
La mia era, chiaramente, la fantasia di un’adolescente cresciuta in una famiglia di matrice cattolica, rimpinzatasi con abbondanti porzioni di fiabe che si concludevano invariabilmente con una coppia felice e contenta, e che passava ore davanti alle commedie romantiche con Julia Roberts. Ero, in una certa misura, programmata per desiderare il matrimonio e per desiderarlo proprio in quel modo lì – una figlia sanissima del patriarcato eteronormativo.
Al crollo dei sogni segue sempre la demolizione degli idoli, e quando mi vidi costretta ad ammettere che difficilmente mi sarei sposata prima dei diciotto anni, e che il mondo era pieno di ragazzi che mi piacevano molto di più di quel primo che avrei voluto sposare, la fantasia di percorrere la navata di una chiesa stretta al braccio di mio padre perse gran parte del suo fascino. Di più, durante gli anni dell’università la sola parola “matrimonio” bastava a suscitarmi un’ilarità sarcastica, velenosa. Ero cambiata io e, di riflesso, mi sembrava cambiato anche il mondo: non era rassicurante e risolto e quieto come quello delle storie che mi raccontavano, forse non lo era mai stato, e il tentativo di ingabbiarlo all’interno di un’istituzione che si proponeva di essere “per sempre” mi sembrava un’assurdità.
La crisi del matrimonio, in numeri
Viviamo in una società secolarizzata, dove Gen Z e Millennial non hanno avuto bisogno di unirsi nel sacro vincolo per mettere su famiglia. In Italia, negli ultimi decenni, il calo dei matrimoni è stato progressivo e costante. Se nel 2000 le coppie che si dicevano “Sì, lo voglio” erano quasi 300000, nel 2023 sono state 100000 in meno. Specularmente a questo calo si è registrato un aumento dei matrimoni celebrati con rito civile, che nel 2018 hanno superato quelli officiati con rito religioso e che aumentano anno dopo anno – con prevalenza al Nord.
Forse c’è ancora qualche genitore che insiste per vedere la figlia stretta in un corsetto di pizzo rebrodé, ma nessuno, neanche mia nonna, si scandalizza più di fronte a una coppia che vive insieme senza essere sposata – eppure, anche se l’istituzione matrimoniale non è più moralmente né giuridicamente necessaria a formare una famiglia (nel 2013 è caduta anche la differenza tra figli naturali e figli legittimi), ci si continua a sposare, e il matrimonio rimane un rito di passaggio fondamentale. Se non per i diritti cui dà accesso, almeno perché rappresenta un’occasione unica di storytelling della propria esistenza, di codificazione di un universo di valori individuali che richiede di essere messo in scena.
Il padre della sposa è una commedia di Charles Shyer del 1991, remake della pellicola omonima del 1950 diretta da Vincente Minnelli. Racconta gli assilli e le gelosie di un genitore di provincia middle class che deve fare i conti con l’imminente sposalizio della figlia Annie – e quindi con il nido che da lì a poco rimarrà vuoto, con la malinconia della vecchiaia che bussa alle porte. Annie (Kimberly Williams-Paisley) vuole un matrimonio da favola, e per realizzarlo decide di affidarsi a un wedding planner di grido. Il padre, un esilarante Steve Martin, inizialmente oppone resistenza – non si potrebbe fare qualcosa di più semplice, di meno costoso? – ma alla fine cede alle pressioni di Annie e non bada a spese per realizzare il suo sogno. Il giorno del sì è tutto perfetto, da manuale – le partecipazioni, i fiori, i segnaposti – ma ci sono due particolari che deviano dall’etichetta: il rinfresco organizzato nel giardino della casa in cui Annie è cresciuta, a testimonianza di un legame con la famiglia d’origine che non si interrompe con il matrimonio, e, soprattutto, le sneakers di sangallo indossate dalla sposa, regalo di un padre che la vedrà sempre come una bambina che tira palloni a un canestro. All’interno di un quadro tanto classico, codificato, sono questi elementi a rendere la cerimonia unica ed emozionante, perché dicono qualcosa della persona che si sta sposando, più che dell’istituzione in sé – ed è questo che facciamo, quando ci sposiamo, diciamo qualcosa di noi.
L’industria e la festa
Negli ultimi vent’anni in Italia si è affermato un settore che prima era del tutto marginale: quello dell’industria del matrimonio, che fra abiti, rinfreschi, location e addobbi genera un indotto di circa 3,5 miliardi all’anno. Come tutte le industrie, anche questa tende a uniformare il prodotto che commercializza – e infatti, spesso, i matrimoni sembrano uno la fotocopia dell’altro: dal solitario al dito della sposa all’angolo delle Polaroid, dalle isole degli antipasti al reel che verrà poi montato con Bruno Mars in sottofondo – ma prova anche a offrire ai propri clienti delle differenze stilistiche che dovrebbero rispecchiare lo spirito degli sposi. Sono stata a matrimoni a tema viaggi e a tema basket, mi sono seduta a tavolate che avevano i nomi delle popstar degli anni ‘90 e ho ricevuto come bomboniera un romanzo inglese che portava nel colophon i nomi degli amici che si stavano sposando. Il diavolo sta nei dettagli, si dice, così come ci sta il senso che diamo a un momento della vita così carico di simboli – anche quando crediamo di fare tutto l’opposto.
Sono stata io a chiedere a mio marito se avesse voglia di sposarsi, una mattina mentre facevamo colazione. Lui ci ha pensato un po’ e poi mi ha detto di sì. Fuori c’era il Covid e la prospettiva di fare una festa con tutti i nostri amici era entusiasmante, ma doveva essere come volevamo noi – che, ci dicevamo, come si dicono tutti, non siamo come gli altri, noi siamo diversi. Non mi sono vestita di bianco, anche se le commesse del negozio non hanno mancato di esprimere tutto il loro disappunto per quella scelta, e mio marito ha visto il mio abito molte settimane prima del matrimonio. La notte prima non abbiamo dormito separati, non ci siamo scambiati anelli e non ho voluto un bouquet da lanciare – in compenso, mi sono portata dietro una borsetta perché non avrei saputo dove tenere le mani. Le piantine di erica sui tavoli le abbiamo prese noi, al mercato dei fiori, la mattina prima, e alla cerimonia siamo arrivati insieme.
È stato divertente immaginare tutti i possibili modi in cui il nostro matrimonio sarebbe potuto diventare una cosa davvero nostra, ma se ci ripenso ora non c’è un solo dettaglio, di tutti questi, che abbia fatto davvero la differenza. Quello che mi ricordo, e che non potevo immaginare prima di farne esperienza, è la gioia adrenalinica e insieme duratura di trovarmi circondata da tutte le persone che ci volevano bene, a cui noi volevamo bene, che facevano festa insieme a noi. La scoperta di essere un nodo piccolissimo di una rete di affetti molto più vasta della nostra coppia, che tiene e si allarga, e il senso di benessere – unico, quello sì – che viene dalla certezza di non essere soli.

Tutto è partito da una denuncia che ancora non è stata confermata, poi sono venute le fake news e i partiti di estrema destra, infine le violenze in strada e gli arresti.

Quest'anno ci siamo accapigliati sulle scene mute dei ragazzi e sui festeggiamenti trash dei genitori. Nel frattempo, i guai della scuola si aggravano e aspettano ancora non tanto di essere risolti, ma anche solo discussi.