L’attore spagnolo ha chiesto la fine del blocco agli aiuti umanitari, guidando una folta schiera di star che hanno parlato della Palestina agli Emmy.
Sari Bashi è un’avvocata per i diritti umani israeliana di origine irachena. È stata program director di Human Rights Watch in Palestina e nel 2005 ha fondato Ghishà, un’organizzazione per i diritti umani e la libertà di movimento che fornisce assistenza legale a persone palestinesi, soprattutto di Gaza, che necessitano di permessi dall’esercito israeliano per gli spostamenti più semplici e necessari, come ricongiungersi ai membri della propria famiglia, raggiungere il lavoro o l’università, avere accesso a cure mediche o seguire un corso di formazione.
Oggi Bashi vive in Cisgiordania con Osama, il suo compagno, palestinese di Gaza, e i loro due figli. A marzo 2025 è stato tradotto in italiano il suo primo romanzo Maqluba: amore capovolto, edito da Voland, che racconta la loro storia d’amore attraverso una raccolta di brani tratti dai diari scritti da lui e da lei negli anni. Senza fare alcuno sconto all’Occupazione, Maqluba racconta la vicenda privata di due persone in una terra squarciata dal Muro, mostrando come la Palestina sia una questione ubiqua e trasversale. «Londra», scrive Osama durante il viaggio per ottenere il dottorato, «mi ricorda che la Palestina è un problema umano come tutti gli altri. La nostra oppressione è specifica ma non unica». Non c’è alcuna morale tra le pagine, non c’è giudizio né buonismo, solo due mondi sovrapposti a confronto con le loro dolorose fratture e contraddizioni. Maqluba è un libro silenzioso, semplice, asciutto, che offre in questo momento una chiave di lettura essenziale, mettendo al centro l’importanza del dialogo, del vedere l’altro, dell’amore nel suo senso più politico.
ⓢ Com’è nata l’idea di pubblicare una storia così personale? Qual è stato il processo di pubblicazione?
Il libro è essenzialmente una raccolta di testi scritti negli anni, in diversi luoghi e momenti, è stato necessario molto lavoro di editing per metterli insieme in maniera coerente. Penso che il progetto sia iniziato nel 2010. Ho cominciato a scrivere perché stavo vivendo sensazioni ed esperienze nuove e potenti, sia per i miei sentimenti nei confronti di Osama che per il mondo che avevo iniziato a scoprire da quando passavo il mio tempo con lui: scrivevo per elaborare. Ci sono stati poi dei momenti nella nostra relazione in cui entrambi abbiamo usato la scrittura come modo per comunicare con l’altro, anche quando non ci parlavamo. Anche se ciascuno teneva i testi per sé, scrivere era un modo per mantenere la comunicazione. La decisione di pubblicare il libro è stata difficile. Abbiamo ancora una vita in Cisgiordania, ci sono molti problemi di sicurezza e di privacy che continuiamo ad affrontare. Non è facile essere così esposti. Personalmente sono una persona molto introversa, anche per questo mi piace scrivere: c’è la fase della scrittura in sé, e poi la fase in cui si condivide la scrittura, e questo mi rende in qualche modo più facile comunicare. Però questo livello di esposizione non è stato facile da affrontare. La versione del libro in ebraico è stata pubblicata mentre noi non ci trovavamo in Palestina, e non è stato un caso. Era il 2021 ed eravamo partiti per fermarci un anno e mezzo negli Stati Uniti, abbiamo deciso di pubblicare il libro mentre non ci trovavamo fisicamente qui, prima di tutto per ragioni di sicurezza.
ⓢ E quando siete tornati?
Prima di pubblicare il libro avevo iniziato a tenere un blog sotto pseudonimo raccontando com’era crescere i nostri bambini in Cisgiordania. Quando il libro è uscito, ho deciso di rivelare anche che ero l’autrice di quel blog. Quindi quando siamo tornati qui c’è stata una doppia esposizione, il libro da un lato, anche se essendo in ebraico non erano in molti ad averlo letto in Palestina, e il blog dall’altro. La decisione di pubblicare sia il libro che il blog a mio nome è legata prima di tutto al modo in cui ho deciso di vivere qui. Negli anni il mio modo di stare qui è cambiato a seconda di molte variabili, soprattutto delle necessità dei miei bambini. Quando i miei figli sono diventati più grandi ho deciso di alzare il profilo, perché non volevo che vivessero la loro identità, la mia identità come un peso. Così ho iniziato a far sì che le persone attorno a me sapessero sempre chi sono, perché i miei bambini non sentissero che c’era qualcosa di cui vergognarsi.
ⓢ Un aspetto importante che torna spesso nel libro è quello della geografia. Come se ci fossero due mondi in uno. Come funziona? E come è stato scoprire reciprocamente questi mondi nella vostra relazione?
Imparando a conoscerci abbiamo anche avuto accesso l’uno al mondo dell’altra, che era per entrambi un altro mondo. Anche se certamente in maniera diversa. Nonostante io potessi entrare in Palestina anche prima di conoscere Osama, averlo incontrato e poi aver vissuto con lui, aver conosciuto i suoi amici e qualche membro della sua famiglia quando era ancora possibile, ha aperto un mondo del tutto nuovo per me. All’inizio abbiamo dovuto entrambi superare gli stereotipi con cui eravamo cresciuti. Lui è stato prigioniero in un carcere israeliano, ha lavorato in cantieri in Israele, e anche io avevo lavorato con i miei clienti palestinesi, ma certamente entrare uno nella vita dell’altra in maniera così intima ci ha aperto mondi nuovi, mondi diversi ma che ci è possibile attraversare grazie anche alla nostra connessione. Certamente però la questione geografica continua a essere una grande difficoltà anche in questo mondo che abbiamo creato. Se i nostri figli avessero bisogno di andare dal medico a Gerusalemme, solo per fare un esempio, sarei io ad accompagnarli e riportarli indietro. Lo stesso se vogliamo andare al mare o a Tel Aviv. Questo mi dà più libertà all’interno della relazione e quando sei in una relazione desideri che ogni cosa sia pari. Questo per sottolineare come l’intero sistema sia pensato e disegnato in favore degli Israeliani. La geografia qui è complicata e negli ultimi due anni la situazione è peggiorata ulteriormente. La libertà di movimento è ancora più ridotta, per esempio per arrivare da un punto A a un punto B distanti otto chilometri potresti doverne fare 50. La sensazione più forte, che non è una sensazione ma una realtà, è che in Cisgiordania, come a Gaza, i palestinesi vivano sempre di più in città-enclave interamente circondate e chiuse da blocchi di cemento e cancelli di metallo che vengono chiusi arbitrariamente ogni volta che l’esercito israeliano lo desidera.
ⓢ Nel libro scrive spesso dell’orrore con cui si deve confrontare nel suo lavoro e in Israele in generale, ma anche della responsabilità di trovare la bellezza in questo orrore. Come si inizia, da Israeliani, a notare la bruttezza del regime in cui si è cresciuti?
La bellezza non è difficile da trovare, questa è una terra meravigliosa, nonostante tutta la distruzione, nonostante il Muro di separazione e il filo spinato. È un posto piccolo ma bellissimo. Per quanto riguarda il riconoscere la bruttezza del regime credo che il mio sia stato un processo graduale, che sicuramente non è ancora finito. Il mio pensiero politico e ideologico attuale si è sviluppato gradualmente nel tempo, ed è anche per questo che sono così sicura e decisa a riguardo. È venuto tutto dall’imparare a osservare, a vedere le cose. Ora ho un punto di vista completamente diverso da quello con cui sono cresciuta, ma non è stato frutto di una ribellione. Io sono crescita in una famiglia sionista di destra, non molto politicizzata, ma sicuramente sionista e di destra. Ma appunto il mio allontanamento da queste visioni non è derivato da una ribellione contro la mia famiglia, è stato invece un processo lungo e lento, iniziato circa 27 anni fa, quando facevo la giornalista e ho iniziato a notare che le cose che mi avevano insegnato quando ero bambina sul regime israeliano non sembravano avere riscontro nella realtà che vedevo. Mi avevano insegnato che gli ebrei erano stati perseguitati per tutta la Storia, e questo è sicuramente vero, ma non c’entra nulla con quello che sta avvenendo in Palestina: quello che avviene ora non avviene, come invece mi avevano insegnato, perché i palestinesi perseguitano gli ebrei. Semplicemente non è vero. Mi è servito del tempo per osservare e capire che in Israele gli ebrei hanno tutto il potere e ne abusano. La profondità e la gravità di questo abuso emergevano sempre più chiaramente man mano che vedevo e apprendevo più cose attraverso il mio lavoro. Per me è stata davvero solo una questione di osservare, processare quello che stavo vedendo e sviluppare la capacità di considerare in maniera critica quello che mi avevano insegnato.
ⓢ A un certo punto nel libro racconta che durante una conferenza a Istanbul è stata criticata dal pubblico perché per il suo lavoro di avvocata si relaziona con le autorità israeliane e «chiede all’occupante favori che non ha il diritto di concedere o rifiutare». In relazione a questo episodio ha parlato di «visione ideologicamente ingenua». Come affronta questo tipo di critiche?
In generale queste critiche arrivano molto più spesso dall’esterno, dove le persone tendono a essere più puriste e intransigenti. Soprattutto dopo il 7 ottobre, quando comprensibilmente si è iniziato a tracciare molte linee sulla sabbia, per capire di chi ci si poteva fidare e di chi no. Si può essere solo pro o contro, “se non sei con noi sei contro di noi”. Questo soprattutto all’estero. In Israele e in Palestina trovo invece molto più pragmatismo, il che non significa assolutamente che le persone qui agiscano con meno principi. Penso solo ci sia più senso pratico e consapevolezza che se si vogliono davvero cambiare le cose declamare ideali non basta, bisogna fare il lavoro. E il lavoro è davvero difficile e davvero pesante, richiede la disponibilità a formare alleanze, a fare compromessi e aiutare le persone come si può, e per aiutare le persone come si può è assolutamente necessario essere pragmatici. Sarebbe bello che più persone da fuori se ne rendessero conto. Essere ideologicamente puri fa sicuramente stare bene con sé stessi, ma non significa necessariamente impegnarsi per portare un cambiamento nella pratica. Il lavoro legale che stavo facendo all’epoca di quella critica, mentre stavo scrivendo il libro, era orribile. Uscivamo dalle aule di tribunale e ci sentivamo sporche, il nostro lavoro era supplicare per le briciole, per cercare di rendere la vita di qualcuno marginalmente più tollerabile. Non è un lavoro che ti fa stare bene. Però è un lavoro importante. Penso che sia imperativo avere dei saldi principi, ma bisogna anche chiedersi “cosa sto facendo per costruire un futuro migliore?”. Il mio desiderio di continuare a vivere qui nonostante tutte le difficoltà è legato esattamente a questo. Moltissime persone se ne sono andate, principalmente quelle persone che non sono d’accordo con lo stato delle cose. Osama e io siamo fortunati perché abbiamo ancora un privilegio sufficiente per poter avere una vita sopportabile qui, per avere una bella vita; proprio per questo sento che abbiamo anche la responsabilità di lottare per rendere le cose migliori.
ⓢ In un brano del libro Osama scrive «quando la sento parlare, sento la lingua dei miei carcerieri», riferendosi alla lingua ebraica e al suo periodo passato in prigione. Come avete superato questa distanza, e qual è in questo contesto il ruolo politico dell’amore?
Lui è riuscito a imparare ad amarmi nonostante l’orrore che sentiva nel suono delle parole che uscivano dalla mia bocca, è riuscito a guardare oltre quell’orrore, è questa è la vera essenza dell’amore. Quando ami qualcuno vuoi riuscire ad amarne l’essenza nonostante tutto il resto. Certamente quello che ciascuno di noi due portava con sé nella relazione ci ha spinti ad affrontare questo “nonostante” molto presto, abituandoci a vedere l’altro nella sua essenza più pura. La lingua ebraica per lui era una lingua di violenza e oppressione e ci è voluto molto tempo, tempo in cui l’ha sentita parlare con tenerezza, per trasformarla alle sue orecchie. Mi ricordo un episodio, quando nostra figlia era appena nata, l’avevo appena portata a casa dall’ospedale. Alcuni amici sono venuti a conoscerla e a un certo punto lei è scoppiata a piangere, io l’ho presa in braccio e ho iniziato a parlare come ogni mamma parla al suo bambino, ma ho parlato in ebraico. I nostri amici, che forse non mi avevano mai nemmeno sentita parlare la mia lingua, né avevano mai sentito parlare ebraico con tenerezza, si sono bloccati per lo spavento, perché per loro l’ebraico fino a quel momento era solo la lingua in cui i soldati gli avevano urlato addosso ai checkpoint per tutta la vita. Poi la tensione si è sciolta e sono scoppiati a ridere. Ci sono strati di cose che vanno disimparate in relazioni come queste. In questo caso il fatto che l’ebraico può essere la lingua dell’oppressore, ma è anche la lingua in cui una madre parla al suo neonato. L’idea generale, da cui nasce anche questo libro, è quella di costruire un amore che sia resistente. Credo ci sia qualcosa di meraviglioso nel fatto di costruire una cosa resistente come questa. La prima edizione del libro è stata in ebraico anche per questo: per provare a portare i lettori in un mondo che fosse a un tempo familiare ed estraneo. Il miglior commento che ho ricevuto è stato da un lettore israeliano che mi ha contattata per dirmi che il libro l’aveva fatto arrabbiare in molti punti, che non era d’accordo su molte cose, ma che gli aveva fatto vedere le cose sotto una prospettiva che prima ignorava. Era esattamente quello che stavo cercando di fare: attirare le persone con una storia, persone che normalmente non avrebbero scelto di leggere dell’Occupazione, che non vogliono sapere nulla dei palestinesi, e attraverso una semplice storia d’amore provare a offrire uno sguardo sul mondo che esiste appena al di là del Muro. Volevo evitare di essere moralista ma allo stesso tempo esporre i lettori a quel mondo, perché possano arrivare alle proprie conclusioni.

Come si costruisce un ecosistema editoriale che sfida le convenzioni e racconta la contemporaneità? Ne parlano Valentina Ardia, editor in chief, e Cristiano de Majo, direttore esecutivo, domenica 14 settembre, ore 12.

Nei suoi libri si oppone a quell'idea di letteratura giapponese “stramba e misteriosa” che tanto successo ha riscosso negli anni. Di questo e di povertà, di stranezze, di suo marito e di litigi con Murakami Haruki abbiamo parlato con lei, durante il Festivaletteratura di Mantova.