Cultura | Dal numero

Lotta di classe remix

Dal numero di Rivista Studio in edicola, storia della riscoperta pop e accademica di un concetto a lungo considerato obsoleto, in un'epoca in cui si avverte il bisogno di un nuovo modello socioeconomico, anche se nessuno ha ancora capito quale.

di Ferdinando Cotugno

C’è stato un tempo recente in cui a portare nel discorso pubblico la lotta di classe, il socialismo, l’anticapitalismo, si veniva trattati nella migliore delle ipotesi come dei lunatici, nella peggiore pestati in qualche caserma ligure a margine di un evento internazionale. Erano i gloriosi anni della Terza via, la filiera che va dal New Labour di Tony Blair fino a Matteo Renzi. Come siamo arrivati da lì al successo social del vestito “Tax the Rich” indossato da Alexandria Ocasio-Cortez al Met Gala due anni fa? È successo che a cavallo dell’ultimo passaggio di decennio, secondo i dati Oxfam, le diseguaglianze sono aumentate con una rapidità che non si vedeva dai tempi della Seconda guerra mondiale. Nel 2022, per la prima volta da un quarto di secolo, sono cresciute sia l’estrema ricchezza che l’estrema povertà. Le due demografiche in vertiginoso aumento sono «personaggi di Succession» o «denti che cadono per mancanza di cure», e in mezzo si ristagna, con nessuna possibilità di ascendere nella prima categoria e un discreto terrore di cadere nella seconda.

La situazione è così allarmante che assistiamo all’ascesa di una nuova figura antropologica, il miliardario illuminato che dice: ragazzi, così non me la sento, tassateci un po’ di più. Si chiamano Patriotic Millionaires, e hanno come figure simbolo i newyorkesi Ben Cohen e Jerry Greenfield, fondatori del brand di gelati Ben & Jerry’s. Difficile dire se sia più questione morale, estetica, o quel filo di paura delle notti in cui immagini che a un certo punto casa tua brucerà come il trono di Francia nel 1848, fatti sui quali un giovane Karl Marx ebbe modo di plasmare le sue idee. Proprio Marx sta vivendo una sorta di riscoperta pop, oltre che accademica, nel flusso di questa nuova normalizzazione di idee radicali e concetti apparentemente desueti, come socialismo, anticapitalismo o lotta di classe. Secondo un sondaggio di Axios oggi solo il 49 percento degli statunitensi tra i 18 e i 34 anni reagisce positivamente al concetto di capitalismo, mentre il 41 percento ha una visione positiva del socialismo, percentuale che cresce al 45 percento tra le donne e al 60 percento tra gli afroamericani. Insomma, spira un vento di vaga e confusa rivoluzione proprio nel Paese che l’aveva resa più impensabile, più impraticabile.

Questa rivalutazione negli ultimi anni è passata proprio dalla coolness working class di Ocasio-Cortez, o dalla memificazione di Bernie Sanders e ha avuto anche effetti nel mondo reale. Nel suo primo mandato da presidente, Joe Biden ha completamente ribaltato l’idea di intervento pubblico a Washington, con operazioni da socialdemocrazia, al punto che gli economisti progressisti d’Europa dicono: facciamo come negli Usa, che è comunque uno scenario bizzarro. In fondo sono tempi in cui anche il Partito democratico italiano sta provando, con tutte le goffaggini del caso, a dirsi un po’ più di sinistra. Elly Zeitgeist, potremmo dire, a prescindere da come andrà l’esperimento neo gauchista in cui è impegnato il partito erede del Pci.

Avevano più o meno ragione i Baustelle nel 2008: il liberismo aveva davvero i giorni contati. Era l’anno del crack della banca d’affari Lehman Brothers e dell’inizio della crisi finanziaria, il momento in cui, come spiega Lorenzo Zamponi, ricercatore alla Normale di Pisa e co-direttore di Jacobin Italia, «è entrata in crisi anche la promessa di avanzamento generale che il neoliberismo aveva fatto, un certo modo di gestire l’economia senza lacci o regole che avrebbe fatto guadagnare qualcosa a tutti. Millennial e Generazione Z questo avanzamento materiale non lo hanno visto, da qui il disincanto e l’interesse per visioni più radicali». In quei giorni aveva iniziato a chiudersi la lunga illusione della pace sociale. Spiega l’economista Marco Veronese Passarella: «La pace sociale era il cavallo di troia di un’idea totalitaria che ha eliminato il conflitto dalla nostra società, e depotenziato tutti gli strumenti di lotta, a partire dagli scioperi».

Archiviato il realismo capitalista delle sinistre democratiche sopravvissuto fino a pochi anni fa, oggi la situazione è questa: c’è molta più domanda che offerta di idee radicali contemporanee. Va forte la lettura di una società rotta, senza prospettive, insostenibile socialmente. Oggi parlare di fallimento del capitalismo è l’opposto di un’idea tabù. Allo stesso tempo mancano nuove visioni che possano fare qualcosa di questa rabbia, metterla a frutto, farne un cammino politico. Il “Tax the Rich” in contesti meno pettinati diventa “Eat the Rich”: nel 2023 sono andate forti le orche anticapitaliste che sembravano prendere di mira in modo seriale gli yacht nel Mediterraneo, sui social c’era stato il movimenti anti jet privati e la tragica morte dei ricchi passeggeri del sottomarino Titan nelle profondità oceaniche non è stata salutata esattamente dal cordoglio. Senza un orizzonte, la lotta di classe diventa così odio di classe, dinamico, aggressivo, creativo, ma anche sterile. Forse non c’è nemmeno l’investimento che richiede un vero odio di classe, come dice Veronese Passarella il vero odio di classe è purtroppo quello dei penultimi contro gli ultimi. Quello del volersi mangiare i ricchi è più fastidio di classe, fomentato dalla sovraesposizione al lusso altrui che ci garantiscono i social.

L’alternativa più spendibile, e più presentabile, prende la forma della lotta alle diseguaglianze, che sono però un indicatore economico, un problema reale ma non galvanizzante, è come se avessimo burocratizzato il materialismo dialettico. Dove c’erano una volta le rivoluzioni, ora ci sono gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu, gli Sdg, un libro di sogni inevasi, buoni soprattutto per farci le spillette colorate. C’è da poco stato a New York il summit Onu per vedere a che punto siamo con questi Sdg, e siamo ovviamente a un pessimo punto, difficilmente la cura all’infezione arriverà da lì, da quel labirinto delle scartoffie globali nel quale i processi servono solo a produrre altri processi, mentre la forbice tra i Logan Roy e gli altri si allarga sempre di più. Il pensiero radicale sembra poter trovare nuova linfa nell’ecologia e nella crisi climatica, un guaio che ha in effetti molto a che fare con le diseguaglianze.

La rilettura più contemporanea di Marx è proprio in chiave ambientalista, quella fatta dal filosofo giapponese Kohei Sato, autore di Marx in the Anthropocene, mezzo milione di copie vendute e devoto alla causa della decrescita, un’altra idea in fase di riscoperta, e in transizione, non più secessione personale per mezzo del proprio orto biodinamico ma progetto globale di riscrittura del mondo. Vasto programma. In assenza di grandi forze collettive che siano in grado di creare nuova politica attiva, l’altra speranza del pensiero radicale contemporaneo viene dall’intersezionalità delle lotte, il reciproco potenziamento politico delle identità oppresse, razziali o di genere che siano. Come spiega Veronese Passarella, «Black Lives Matter è una lotta con elementi di classe, così come la distruzione dei simboli dello schiavismo, le lotte per i diritti o quelle ambientaliste.

Però l’elemento di classe non può essere dato per scontato, perché troppo spesso la causa dei diritti si trasforma in spezzatini identitari, nel pattugliamento bigotto del linguaggio. Quelle ambientali diventano addirittura esclusione, come nel caso delle auto elettriche e dei divieti al traffico, quindi ogni intersezionalità può essere lotta di classe ma anche lotta di classe rovesciata, fatta contro i poveri». Il paradosso è che spesso sono i nemici del progresso su diritti o ambiente a rivendicare l’elemento di classe. In questa forma di aggressivo benaltrismo (“alla sinistra non interessano i poveri”) la classe diventa «un totem retorico, come se i poveri non subissero la mancanza di un ambiente sano o di diritti civili».

Insomma, l’intersezionalità aumenta il potenziale delle lotte ma anche la confusione tra le lotte, soprattutto in mancanza di una lettura unificante contemporanea, calata nel presente. Come spiega un altro osservatore di lungo corso di questi fenomeni, l’economista Ernesto Screpanti, autore di Liberazione: Il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente (Edizioni Punto rosso): «Oggi viviamo in una fase in cui le lotte degli oppressi sono in ripresa in tutto il mondo. Le ragioni sono diverse, ma sostanzialmente riconducibili al fatto che quaranta anni di compressione dei salari relativi, e spesso anche assoluti, di super-sfruttamento e di super-oppressione, di incancrenimento dei problemi sociali, ambientali e anche culturali, la gente ha la sensazione che è stato raggiunto un limite di disumanità oltre il quale non si può più andare, e quindi si ribella. Queste sono lotte della disperazione, non sono mosse dal “vogliamo di più”, come negli anni ’60, bensì dal “non ce la facciamo più”».

La lotta di classe nella sua formulazione contemporanea non nasce più dalla speranza o dal desiderio, ma dall’esasperazione e dalla stanchezza, contiene domande più che risposte, si avverte un’attesa quasi messianica di qualcuno o qualcosa che sappia unire tutti i punti che passano dalla povertà alla crisi climatica, dagli squilibri globali alla militarizzazione. È quasi la ricerca di una nuova teoria del tutto, che faccia da antidoto all’infinita dispersione delle energie che c’è in un presente in cui ci si attiva in continuazione per ottenere pochissimo.

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