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La pestification della Liguria

Tra turismo di massa e invasione milanese, com'è successo che la nuova frontiera della gentrificazione diventassero proprio Genova e dintorni.

di Enrico Ratto

Qualche sera fa, durante l’inaugurazione della seconda o forse terza mostra di Sebastião Salgado a Genova, un gruppo di signore ormai assuefatto all’Amazzonia in bianco e nero, commentava messaggi su Whatsapp. «Una coppia di amici milanesi mi chiede il nome di un’agenzia. Vogliono comprare casa a Genova». «Non se ne può più. Mandali a Begato». «Begato l’hanno demolita». «Allora a Molassana». «Vogliono il mare, non c’è il mare a Molassana». «A Molassana c’è più mare che a Corsico, diglielo».

È chiaro che è una lotta impari. Da una parte i maldestri tentativi di dirottare i nuovi arrivi verso la banlieue, dall’altra i reporter inglesi dell’How To Spend It che trascorrono un weekend a Genova, si innamorano della città, degli hotel cinque stelle lusso superiore nella stessa Via del Campo cantata da Fabrizio De André, e poi dedicano pagine a palazzi, botteghe storiche, scorci di mare che solo a Genova. Sembrava essere la soluzione – trasformare una grigia città industriale e i suoi svincoli micidiali in un’attrazione per turisti – ma la realtà è che oggi Genova ha un problema. Le fotografie che circolano su Instagram con la barriera umana sulla spiaggia di Boccadasse già a metà marzo sono lì per mostrarcelo. Così come i muri in pietra del centro storico, oggi chi durante la notte finisce per scriverci sopra se la prende con Airbnb, con i croceristi, con la gentrificazione in genere, in qualche caso con l’eccessiva diffusione del pesto e dello strutto nella focaccia (ci hanno fatto pure un libro). È la cartina di tornasole di un certo disagio.

Eppure i genovesi sono accoglienti per natura, chi legge non scrolli subito la testa. Per molto tempo si è detto l’opposto, ma possiamo assicurare che chi abita il centro storico non ha mai avuto un solo problema con l’accoglienza, la convivenza e con tutti i termini usati da chi non è abituato alla novità, al cambiamento. A Genova tutto cambia in continuazione, non è una città immobile, il mare scuro si muove anche di notte, non sta fermo mai. Renzo Piano dice che la presenza del porto, delle navi in arrivo e in partenza a tutte le ore, delle gru che sollevano in aria gli enormi container, fa mutare continuamente il paesaggio, non solo quello fisico, soprattutto quello mentale. Le ondate migratorie non hanno mai preoccupato – forse nemmeno interessato – né i proprietari dei palazzi storici (le proprietà immobiliari qui si misurano in edifici cielo-terra, non in metri quadrati) né gli equilibri interni. Finché tutto è arrivato via mare, via nave, nessuno si è mai posto il problema, è stato il treno ad alta velocità (l’unico, ad oggi) del marketing a scatenare il mugugno.

È stato quando quelli del marketing hanno definito la nuova strategia per posizionare la città nel mondo. I pilastri: Fabrizio De André, pesto al mortaio e Guinness dei primati. Da un certo giorno in poi, qualsiasi record poteva essere battuto e comunicato via Instagram. Dalla focaccia più lunga del mondo (suddivisa in teglie di piccole dimensioni, ma il giudice ha validato lo stesso), alla metropolitana più corta d’Italia che però passa sotto il centro storico più vasto d’Europa. Per un weekend c’è stato anche lo scivolo gonfiabile d’acqua più lungo del mondo e qualche giorno fa è stata individuata la spiaggia più a nord del Mediterraneo (è a Voltri, sta lì da secoli, indipendentemente dalle strategie commerciali).

Anche il dato che la Liguria è la regione più anziana d’Italia non è stato preso come un limite o un problema da risolvere in fretta, ma un altro record da battere. È la “silver economy”, l’economia fondata sugli anziani, e così si sono organizzati convegni, conferenze ed eventi dove la Liguria è stata classificata come la Florida italiana. Applausi in sala, qualche sfottò su Facebook, è ovvio. Con i valori immobiliari ai minimi (altro record) – in centro storico siamo intorno ai duemila euro al metro quadrato per appartamenti che altrove starebbero a dodicimila – è iniziata la pioggia di Whatsapp per cercare un contatto, un’agenzia di fiducia, un qualsiasi modo per trasferirsi a Genova. Cifre abbordabili sia per chi va in pensione – quelli con il mito della Florida la chiamano retirement – sia per chi sceglie di lavorare meno (downshifting), di lavorare da casa (smartworking), di aprire le finestre e vedere il sole anziché la nebbia (comunque c’è la maccaja, tenerne conto).

Poi è arrivata la pestificazione della città: da qualche anno c’è pesto ovunque, pure quello senz’aglio è stato sdoganato. Il più buono e sottovalutato tra i condimenti – costoso da produrre, difficile da conservare, di facile ossidazione e quindi il verde fosforescente delle fotografie non è mai stato davvero replicabile nel piatto – è stato mandato persino in zattera sul Tamigi, in occasione della Fiera Mondiale del Turismo. In aeroporto, al controllo bagagli, è stata istituita un’eccezione per il «trasporto di pesto» nel bagaglio a mano, anche se spesso si accendono discussioni tra viaggiatori e forze dell’ordine, «due vasetti li deve lasciare signore, mi dispiace, fosse per me si figuri ma è l’ordinanza».

La situazione non è meno seria nelle riviere, per lo meno quella di Levante, dove il territorio è davvero stretto, ci si sta in pochi. Santa Margherita, Camogli, le Cinque Terre avvertono la pressione. Sono luoghi abituati al turismo, ma per certe cose c’è Ibiza, non Santa Margherita. Non era un turista, ma è un caso che tutti ricordano che spiega il senso del limite. Qualche anno fa Riccardo Garrone, petroliere e presidente della Sampdoria, per qualche forma di accordo con Gheddafi dovette mettere in squadra il figlio del colonnello. Per un certo periodo dovette metterselo pure in casa, nella villa di Portofino, e così tra Santa Margherita e Paraggi molti ricordano la colonna di Hummer che la notte sfrecciavano lungo le strettissime – e a perenne rischio frana – strade della costa. L’Orrore: a Santa hanno detto mai più. Oggi sono alle prese con Bill Gates che si è comprato il castello di Portofino per aprirci un Four Seasons, con conseguente sfratto di Rosanna Armani, Carla Sozzani e i Loro Piana, e in piazzetta già temono il peggio.

Così quando la domenica sera le spiagge di Boccadasse, di Camogli e di Monterosso si svuotano, restano i punti interrogativi. Perfino i ristoratori, mentre chiudono la cassa e ci regalano finalmente un sorriso, si chiedono se tutto questo abbia un senso, non ne capiscono la direzione. È solo il cortocircuito tra una popolazione mai contenta, incline alla lamentela e una strategia che vuol riposizionare un territorio? Se garantisci qualità perché attrai quantità, dove vuoi andare?

Nel 2024 gli esperimenti sono innumerevoli, c’è sufficiente letteratura da capire che cosa è andato bene e che cosa non ha funzionato nella definizione di campagne per ricostruire la reputazione di un territorio. Ci sono città dove Airbnb ha già attraversato tutte le fasi: diffusione capillare, città stravolta, messa al bando, rientro in forma sostenibile. Ma è forse troppo semplice caricare tutto questo disagio sulle spalle degli affitti brevi, dello smartworking affacciato sul mare, dell’immobiliare ancora accessibile, della ricerca di una alternativa alla grande città. Sono solo elementi che tracciano una rotta già vista. Chi dovesse davvero studiare il caso e tentare di mettere in pratica una soluzione sostenibile e al riparo dal mugugno, potrebbe perfino finire in un Guinnes dei primati, uno qualsiasi, purché intelligente.