Stili di vita | Coronavirus

Cercasi lievito per la fine del mondo

Nel mezzo dell’emergenza Coronavirus abbiamo riscoperto le nostre doti culinarie, esaurendo, in un solo weekend, un prodotto spesso snobbato.

Milano, 11 marzo 2020: una donna indossa la mascherina per andare a fare la spesa (foto di Miguel Medin/Afp via Getty Images)

In principio furono le mascherine. Un bene di consumo solitamente utilizzato al massimo per battere i tappeti o per sturare i lavandini con l’acido muriatico, in un attimo è diventato fondamentale, per tutti. Il tema delle mascherine continua a tenere banco a distanza di quasi un mese dalle prime ordinanze italiche per la riduzione del danno da Coronavirus. Non ci sono, non si trovano, sì si trovano online e constano una follia, mannaggia agli speculatori e mannaggia pure a Francia e Germania, che se le tengono per sé e non ce le vogliono mandare, mentre da una parte fino a ieri si puntava a una sorta di immunità di gregge poi smentita, e dall’altra l’ex première dame fingeva spassosissime crisi di tosse durante la settimana della moda parigina. Per non parlare di quelle home made fatte con la carta da forno e di quelle usa e getta da infilare nelle orecchie. Poi è venuto il tempo del detergente per le mani senz’acqua, strumento fondamentale di ossessivi compulsivi prima, ma ora sul tavolo di chiunque, nelle borse di tutti. Un amico ha dato il numero alla sua farmacista per farsi notificare con un sms l’arrivo della fornitura di gel mani, altri li vedi che scrutano con curiosità nuovi marchi, ne annusano le fragranze e provano a fare recensioni e stilare classifiche. Troppo forte, lascia le mani troppo secche, sì il dispenser è più comodo però poi è complicato da trasportare. Ogni latitudine, ogni Paese, all’inizio della serrata, ha inoltre affrontato quei due o tre giorni di totale scomparsa della carta igienica dagli scaffali dei supermercati presi d’assalto. Poi è tornato tutto regolare, certo, ma al principio è sempre così, si pensa sempre e giustamente ai bisogni primari. Nel bel mezzo di questa emergenza che tutto ha travolto e che probabilmente ci cambierà per sempre, è a questi stessi bisogni che abbiamo scoperto appartenere anche un altro prodotto solitamente snobbato e dimenticato tra gli scaffali del reparto frigo: il cubetto di lievito di birra.

In questo primo fine settimana di totale chiusura e ufficiale quarantena, per giunta di tempo incerto, centinaia, migliaia di italiani si sono dedicati alla paziente arte della panificazione. Pizze, brioche, pagnotte, lievitati, di farina bianca bio o integrale a chilometro zero, con a fianco il libro di qualche mastro fornaio (finalmente in uso e non solo lì, sulla mensola, a far bella mostra di sé), con la ricetta della zia o più prosaicamente con quella trovata su un sito internet. Per i solutori più abili, un sapiente e rodato incrocio tra le dritte di uno, le quantità di un altro e i gradi e i tempi di cottura di un terzo.

E sui social la testimonianza era vivida e lampante. Foto 1:1 che testimoniavano i primi croissant con caption che ne documentavano la difficoltà, la scelta della ricetta e le ore di lievitazione. Poi, sotto, un florilegio di commenti: Ma tu quante volte hai re-impastato? Hai usato l’acqua calda o fredda? È farina di manitoba? Rimacinata a pietra? Il picco, si sa, arriva sempre la sera. Tra sabato e domenica pizze, calzoni e focacce, dirette Instagram per l’impasto live, richieste di aiuto se il forno fosse meglio statico o ventilato, per la temperatura ambiente dell’impasto a riposo.

Tutto questo, ovviamente, per chi ha potuto rifornirsi del fichissimo cubetto di lievito. Ma a Milano la situazione era emergenziale sin dalle prime ore del fine settimana. Chiaramente era stato sottovalutato il milanese casalingo, la sua voglia di non rimanere con le mani in mano, di sfruttare il più possibile le sue tante, infinite ore a disposizione sfidando sé stesso con nuove e mirabolanti prove personali rigorosamente indoor. Alla faccia di chi dice che a Milano vanno tutti a cena fuori, a casa non cucina nessuno e al massimo chiamano il delivery.

All’inizio pensavo fosse una cosa del mio Carrefour sotto casa: sabato mattina lo scaffale era già bello che spazzolato. Ma presto la notizia veniva confermata da altri che in varie città d’Italia ci avevano provato a weekend iniziato e non avevano, come me, pensato a rifornirsi durante la settimana. Niente lievito nemmeno per un’altra amica di Bologna che però ha potuto riparare in una bustina di quelli secchi ritrovata dentro un cassettino. Seppur scaduto almeno un lustro fa, il suo Instagram pare dimostrare che era ancora vivo e attivo. Un altro risponde con spavalderia a una mia storia che testimoniava la penuria del prodotto. Lui ha il lievito madre sempre disponibile nel frigo, dice. Ha cento anni ed è parte dello stesso lievito madre di uno dei fornai più apprezzati di Roma. Ripiegare su quello secco non è una soluzione ammissibile: anche quello pare essere stato razziato. Mandato in avanscoperta a distanza debita dagli altri clienti, munito di guanti e mascherina, pure il mio coinquilino è tornato a casa a mani vuote: «Mi hanno fermato già all’entrata. Mi hanno detto che avevano finito tutto da ore» dice. Non resta che rimanere a sbirciare dal buco della serratura di Instagram questi bei lievitati apparentemente tronfi e morbidi.

In realtà un’ultima spiaggia c’è: il lievito istantaneo. Ma chi ha mescolato un po’ di farina nella sua vita lo sa quanto quest’ultimo sia foriero di delusioni e drammatiche discrepanze tra le soffici immagini delle loro illusorie confezioni e le macigne realtà che poi, dopo tutto quel faticare, mentendo a noi stessi finiamo per ingollarci. L’insidia dell’impasto lievitato, infatti, è sempre dietro l’angolo. Sembra tutto facile, basta seguire le istruzioni, mettere la giusta temperatura, ma invece non è così. Quasi sempre qualcosa non va. Hai messo troppa acqua, poco olio. Troppo alto il forno, troppo basso il ripiano. Si tratta di un’alchimia che genera invidie e nevrosi tra chi non ne esce nei confronti di chi invece sfoggia lievitazioni degne di un navigato boulanger.

La verità è che quasi sempre la pizza in casa è buona solo per chi la fa. Mio padre detesta quando mia madre lo informa di avere preparato la pizza. «Non sa di pizza», dice, «è un pane con sopra della roba che finisce per non essere mai buono davvero. La digeriamo domani. La pizza andiamo a mangiarcela al ristorante». In attesa di nuovi rifornimenti dei preziosi cubetti marroncini in tutti i supermarket meneghini, è quello che ho finito per fare anche io: una digeribilissima pizza impasto 5 cereali, lievitata due giorni, cotta perfettamente, rigorosamente (e obbligatoriamente) d’asporto.