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Cosa si dice di Sharp Stick, il nuovo film di Lena Dunham

Nella percezione collettiva, Lena Dunham è un po’ “sparita” dopo il finale di Girls, la serie Hbo che l’ha trasformata nella «voce di una generazione o, almeno, una voce di una generazione», come diceva il suo alter ego televisivo Hanna Horvath. In realtà, Dunham ha lavorato parecchio nei dieci anni passati dal primo episodio di Girls, che risale al 2012: ha fatto da executive producer per le serie tv Camping Generation, e ha anche scritto un memoir. Adesso ha finalmente deciso di tornare al cinema: al Sundance Film Festival, infatti, c’è stata la premiere del suo nuovo film, Sharp Stick, lungometraggio che Dunham ha scritto, diretto, prodotto e interpretato. La prima è stata lo scorso 22 gennaio e in questi giorni si cominciano a leggere le prime recensioni, scritte soprattutto dai critici americani.

Sharp Stick è la storia di Sarah Jo, una 26enne la cui vita sessuale è stata interrotta da un’isterectomia subita a 17 anni. La ragazza dovrà aspettare dieci anni per “ricostruire” un rapporto con il sesso, ricostruzione che ha inizio quando perde la verginità con l’uomo ai cui figli fa da babysitter, evento che libera Sarah Jo dal suo passato e le fa cominciare una serie di esperienze «selvagge, aliene e meravigliose», come ha scritto Seth Abramovitch in un lungo profil-intervista pubblicato sull’Hollywood Reporter (in cui Dunham ha anche parlato di una possibile nuova stagione di Girls). Una premessa che pare piuttosto lineare e che invece è la base sulla quale poggia un film «che si sposta da un elemento all’altro, […] cosa che lo mantiene sempre imprevedibile ma che lascia nello spettatore anche la sensazione che il film raggiunga la stabilità narrativa solo nel momento in cui ormai siamo arrivati al finale. Da certi punti di vista, ricorda un frammento estratto da una serie televisiva», ha scritto su Vulture Alison Wilmore. Una confusione narrativa che ha infastidito anche Adrian Horton del Guardian, che ha definito Sharp Stick «un film strano, sbagliato, di tanto in tanto anche sexy, con al suo interno degli spunti radicali e dei momenti di brillantezza registica. Ma tutto il buono che c’è nel film è messo in secondo piano dalla inspiegabile decisione di Dunham di scrivere la 26enne protagonista o come una persona affetta da neurodiversità o come una bambina con le fattezze di un’adulta».

Anche secondo Leah Greenblatt di Entertainment Weekly, il principale problema del film è la protagonista: «Tutto quello che succede avrebbe più senso se Sarah Jo non fosse un personaggio così illogico, una ragazza che il minuto prima descrive peni dalle forme insolite e il minuto dopo ci viene proposta come una sempliciotta che non ha mai sentito parlare di sesso orale». Ancora più severo Owen Gleibermann di Variety, secondo il quale il film è vittima delle aspettative troppo alte del pubblico nei confronti di Dunham e di Dunham nei confronti di se stessa: «Proprio per allontanare il demone delle aspettative, Dunham ha fatto di Sharp Stick un’avventura minore, l’abbozzo improvvisato di un film, girato durante la pandemia con la stessa estetica che si può trovare in un’infinità di titoli minori in concorso al Sundance». Kate Erbland di IndieWire ha provato a sottolineare anche degli aspetti positivi del film, definendola «uno sguardo inquieto sulla natura del desiderio». Ma anche lei, in chiusura del suo pezzo, ha dovuto ammettere che «anche quando Sarah Jo riprende il controllo della sua vita, commette i suoi errori e comincia a cercare la sua personale definizione di gioia, anche questi momenti sembrano una posa, falsi, difficili da prendere sul serio, un “oggetto appuntito” che colpisce agli occhi, mai al cuore».