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Anselm Kiefer, una carriera di memoria e macerie

Ha aperto la grande mostra antologica a Palazzo Strozzi a Firenze: compendio di un'arte che parte dalla cenere e tende verso l’alto.

di Gaia Badioni

Sono passati solo due anni dall’ultimo intervento di Anselm Kiefer in Italia, al Palazzo Ducale di Venezia dove presentò Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce. Le monumentali opere, per l’occasione, erano state pensate guardando alla filosofia di Emo, alle allegorie, al misticismo, al fuoco generatore, alla guerra: temi a lui cari, sviluppati durante la sua cinquantennale carriera, e ora attuali più che mai. A pochi giorni dall’apertura della mostra Angeli caduti, ospitata a Palazzo Strozzi a partire dal 22 marzo 2024 e in attesa del film documentario Anselm di Wim Wenders, recuperare la poetica di Kiefer può illuminare la contemporaneità di una carriera decennale e avvicinarci a quella soglia che egli stesso invita a superare per guardare Oltre.

Per capire Kiefer (Donaueschingen, 8 marzo 1945) bisogna innanzitutto capire la sua storia. Andare nel Sud della Francia, più precisamente a La Ribaute a Barjac, in Francia. La casa-studio dell’artista è stata l’epicentro del suo lavoro creativo dal 1992 al 2007. Da allora, Kiefer ha continuato a sviluppare il sito, che ora si estende su 40 ettari ed è composto da più di 70 installazioni, tutte collegate tra loro attraverso un’intricata rete di sentieri, tunnel e cripte sotterranee. Possiamo partire da qui, da questa immagine del tunnel oscuro e buio, dall’intricata rete di sentieri della conoscenza, della storia, del pensiero introspettivo per comprendere l’opera di Kiefer. Il lavoro dell’artista tedesco è fatto di ricerca, studio, recupero, conoscenza e trasmissione della storia e delle radici, non solo proprie, ma più in generale dell’uomo. Le crepe della sua terra martoriata dalla Seconda Guerra Mondiale sono gli spiragli in cui guardare per poter conoscere, sono l’eco di un’eredità esausta da far risuonare per non perdere la rotta.

Dunque, Barjac. Decadente, imponente, sbilenco terreno desolato. Le vedute dell’immenso parco non rimandano al mondo patinato spesso attribuito all’arte contemporanea. A Barjac c’è la polvere, c’è il cemento, c’è l’umidità della terra, c’è la crudezza della distruzione. E Kiefer non fa sconti a nessuno.

Dal 2012 al 2020 ho trascorso quasi ogni giorno all’interno dell’installazione permanente site specific I Sette Palazzi Celesti, nello spazio milanese Pirelli HangarBicocca. L’opera è una trasposizione delle strutture che svettano all’esterno della tenuta francese, sette torri di cemento armato che tutto danno meno il senso di stabilità. Il silenzio che pervade lo spazio del concepimento dell’opera permane anche nella sua forma definitiva. Soprattutto vince il senso di spaesamento.

Il lavoro di Anselm Kiefer si può collocare proprio lì, in quell’intricato discorso che innalza l’arte a guida di un atto rivoluzionario. Siamo entrati nel primo tunnel: l’arte come catarsi. Uscire dall’oblio e dall’apatia passa, per Kiefer, per l’uso di simboli delle civiltà in rovina. Simboli antichi, come torri e piramidi, ma anche quelli della contemporaneità, come le pellicole cinematografiche. Il paese ai piedi della Foresta Nera dove Kiefer da bambino giocava alle costruzioni usando i pezzi delle case sventrate non è poi così distante. Ma se le torri richiamate dall’artista mostrano la tensione comune dell’uomo verso il cielo avvenuta in modo spontaneo e contemporaneamente in ogni angolo del mondo in tempi antichi, quelle moderne disegnano un panorama piatto e irriconoscibile, perché uguale in ogni dove. Ci siamo persi.

L’operazione artistica di Kiefer, per questo, cerca di ribaltare i punti di vista. Al centro del mirino, nelle sue installazioni, siamo noi. Le macerie che compongono lo spazio non sono più estranee, lontane, ma elemento vivo e abitato, capaci di attivare tumulti del pensiero e dell’animo. Improvvisamente si sente il bisogno di leggere le tracce lasciate da chi è venuto prima di noi e di proseguire su quel cammino, di fare lo stesso. Di non lasciare che tutto si perda.

Grazie all’abbattimento della barriera tra opera e spettatore, Kiefer cerca di far emergere le testimonianze del passato. I tunnel che l’artista scava a Barjac e che, metaforicamente, ricrea nelle sue opere, sono dunque delle vie di fuga, dei rifugi. La luce che debolmente li attraversa si fa materia da modellare.

Kiefer è poi ossessionato da un metallo in particolare: il piombo. L’ elemento alchemico per eccellenza, simbolo di distruzione e morte se collegato all’industria bellica, è anche il metallo che, per le sue proprietà, non permette l’impressione delle immagini, quindi della memoria. In passato ha acquistato l’intera copertura a lastre della cattedrale di Colonia. Curiosamente, il piombo è spesso associato a un elemento apparentemente antitetico, nell’opera di Kiefer: il libro. Nelle mie passeggiate solitarie all’interno dell’installazione milanese sono sempre stata attratta dai grandi libri di piombo schiacciati tra un piano e l’altro delle torri per controbilanciare i setti in cemento armato appoggiati gli uni sugli altri. Mi domandavo: quanto è importante costruire l’ossatura del pensiero? Conoscere, riconoscere, selezionare, ricostruire. Quelle strutture così imponenti e precarie, pronte a cadere da un momento all’altro, non starebbero in piedi senza quelle pagine.

Nel 2020 Noam Chomsky definiva la cancel culture come «la prosecuzione delle metodologie con cui le istituzioni mediatiche tradizionalmente modellano l’opinione di massa». Il lavoro di Kiefer, ancora una volta, si inserisce ai due estremi di questo intricato discorso: da un lato troviamo dei cenni alla strumentalizzazione dei mezzi di comunicazione attraverso l’utilizzo della pellicola in piombo come materiale per costruire libri pesanti, che se da una parte liberano il pensiero, dall’altro ingabbiano la storia. Sul versante opposto, invece, abbiamo il gesto rivoluzionario di aprire le pagine di quei libri, leggerle a gran voce, proprio per evitare che si perdano.

E allora, le torri di Barjac e di Milano, che paiono delle figure in attesa, acquisiscono tutto un altro significato. Fatte a pezzi, orfane della parola, esse sono in grado di raccontare la loro storia grazie a ciò che sono riuscite a custodire, salvare, tramandare. Così, nella loro imperfetta fierezza, si possono slanciare verso l’altro.

Come contrappunto ai sentieri polverosi della conoscenza e delle sue installazioni, ci sono però le costellazioni, i semi di girasole, i petali essiccati di tulipano dei dipinti dedicati ai poeti arabi. Nel 2007, ad esempio, al Gran Palais di Parigi, Kiefer fa coesistere la vita del cosmo accanto alle citazioni di Paul Celan, Ingeborg Bachman e Céline. Grazie alla poesia, che è «come una boa nel mare», come suggerisce Kiefer stesso, si è in grado di uscire dai tunnel, di farsi completare dall’alto e dall’Altro. Proprio come i Sette Palazzi Celesti, tutti cavi all’interno, ma uniti dalla luce.

Il percorso che l’artista fa compiere attraverso le sue stratificazioni (opere d’arte totale, potremmo chiamarle, come le grandi partiture wagneriane) è vero, reale, tangibile. Un percorso che ci insegna di come l’unicità sia una moltitudine di voci, di storie, di solitudini, che non vanno nascoste, abbattute o ignorate, ma inglobate nel presente. Ciò che è stato e che potrebbe ancora essere trova forma e spazio. I pensieri più reconditi dell’animo umano, come in un cerchio, mutano dal fuoco alle ceneri, dove trovano linfa per rinascere. Le macerie del passato vengono trattate come le fondamenta del futuro per innalzarsi, finalmente, a rovina del presente.