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Jesse Armstrong ha raccontato sul Guardian le origini di Succession

«Il mio primo vivido ricordo del progetto che sarebbe poi diventato Succession è stato il tentativo di uscirne. Era circa il 2008 ed ero sul posto per le riprese di Peep Show, la sitcom britannica che il mio partner di scrittura di lunga data Sam Bain e io abbiamo scritto insieme. Tra quello spettacolo e il mio lavoro su The Thick of It e In the Loop, e un sacco di altre cose, mi sentivo troppo impegnato. Quel particolare giorno stavamo fingendo che un campo molto normale nell’Hertfordshire fosse un parco safari. Sono sceso dal set e, nascondendomi da leoni immaginari, ho cercato di allontanarmi elegantemente dal progetto»: così comincia l’articolo firmato da Jesse Armstrong e pubblicato sul Guardian in cui, in occasione del gran finale della serie (di cui parliamo qui) lo sceneggiatore racconta la genesi della serie più amata degli ultimi anni.

Il tentativo di allontanarsi dal progetto fallì miseramente. Amstrong si mise quindi senza troppo entusiasmo a lavorarci, «molto lentamente». L’idea iniziale era di realizzare un “finto documentario” che avrebbe «mostrato direttamente alla telecamera i segreti aziendali di Rupert Murdoch», ma mentre lo scriveva si rendeva conto che la sceneggiatura era «un disastro: pesante e strana». Piano piano il finto documentario si è evoluto in una specie di spettacolo televisivo, ambientato alla festa per l’ottantesimo compleanno del proprietario dei media. Channel 4 era pronto a sostenere il tutto, racconta Amstrong, ma il progetto continuava a essere uno strano mix tra docudrama e serie televisiva che sembrava molto molto difficile da realizzare. «Intorno al 2011, dopo una lettura a Londra in cui John Hurt interpretava Rupert, il progetto è morto», ricorda l’autore.

Se dobbiamo ringraziare qualcuno per l’esistenza delle quattro meravigliose stagioni che si sono appena concluse, quella persona è l’agente americano di Jesse Amstrong, «la prima persona che ricordo aver suggerito un approccio totalmente diverso. Una famiglia immaginaria, uno spettacolo statunitense con più stagioni. Per circa cinque anni ho respinto l’idea, certo che il ritratto di una famiglia immaginaria non avrebbe mai avuto il potere di una famiglia reale». Amstrong cita le quattro opere che gli hanno fatto cambiare idea: il documentario su Robert Durst della Hbo, The Jinx, la cupa autobiografia incentrata sul business di Sumner Redstone, A Passion to Win, DisneyWar di James B. Stewart; la biografia di Robert Maxwell di Tom Bower Maxwell: The Final Verdict. Quattro esempi che hanno trasformato completamente il suo punto di vista: l’idea di costruire una serie senza attingere dalla storia di una famiglia realmente esistente non era più un terribile tradimento della realtà, come aveva sempre pensato, ma poteva diventare un’allettante possibilità di raccogliere tutte le storie migliori in una sola. E da lì è iniziata «una lunga e profonda immersione nella ricerca sulle famiglie ricche e sul business dei media».

Il pitch che Amstrong proponeva agli studios era «Festen-incontra-Dallas». Nessuna star nel cast, riprese in stile Dogma 95. Ovviamene il suo luogo dei sogni era Hbo, «il posto in cui desideravo di più che lo show arrivasse, la casa dei Sopranos e di Six Feet Under. Sapevo che potevano essere ricettivi. Frank Rich – un tempo noto come il “Macellaio di Broadway” per le sue critiche teatrali, ma ora consulente del network – aveva sostenuto il mio lavoro con il suo capo, Richard Plepler, e in precedenza avevo sviluppato uno spettacolo con loro». Quindi ha proposto il progetto a Casey Bloys, head of drama and comedy. A questo punto Amstrong dà una splendida descrizione della sensazione che ha provato: «A volte un pitch si allunga sottile e logoro, il tessuto si strappa mentre procedi, l’altra parte fa capolino cupamente attraverso i buchi. Altre volte, l’aria si addensa e puoi sentire l’atmosfera nella stanza diventare ricca di ossigeno mentre l’entusiasmo che stai cercando di proiettare si trasforma in un entusiasmo che stai effettivamente provando». Super convinti, quelli di Hbo hanno fatto un’offerta e Adam McKay, fresco di The Big Short, ha espresso il suo desiderio di venire coinvolto nel progetto. E così, nel 2016, Amstrong ha iniziato a lavorare all’episodio pilota.

Nella seconda parte di questo bellissimo articolo (lettura imprescindibile per tutti i fan di Succession), Amstrong parla della fondamentale importanza rivestita dalla vittoria di Trump nella scrittura della serie. E conclude: «Mi chiedo se Succession avrebbe funzionato nello stesso modo senza la presidenza di Trump. Trump non è stato il bombardamento di civili tedeschi, e Succession non è Mattatoio n.5, ma a volte penso a Vonnegut che dice che nessuno al mondo ha tratto profitto dal bombardamento di Dresda, tranne lui».