Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a marzo in redazione.

di Studio

Claudia Durastanti, Missitalia (La Nave di Teseo)
Quando ci entri, ti travolge. Ci vuole un poco, a mettercisi comodi con tutti e due i piedi nel mondo di Missitalia: serve lasciarsi indietro la memoria di molta della letteratura contemporanea, e anche passata, perché Claudia Durastanti crea i suoi mondi, anziché accomodarsi in quello già esistente, e questo vale anche per la lingua. Fa le regole, e a quelle regole ti devi attenere. Quindi ci si mette del tempo, e magari le prime pagine di Missitalia vanno lette diverse volte, per ambientarsi, come ci si ambienta a un carattere duro, a una strada in pendenza. Alla fine, senza accorgersene, ti trovi dentro il turbine. Il turbine, in Missitalia, è fatto di un trittico di storie femminili nel corso di quasi tre secoli. Prima un gruppo di reiette e bandite nella Lucania dell’Ottocento pre-industriale, brigantesse senza troppa convinzione ma con molta libertà, poi una donna in formazione nella Roma e nella Lucania, ancora, tutte da costruire nella morale del mondo nuovo del Dopoguerra, e infine sulla Luna, collegata con un filo diretto con la Val d’Agri, da sempre frontiera. Sono tre storie che si scontrano con lo sviluppo di quello che abbiamo, per semplicità, chiamato progresso, a volte con la p maiuscola: unità nazionale, petrolio, aborto, conquista dello spazio. Ma non con nostalgismo: c’è troppa intelligenza per giudizi tagliati così. Quando alzi gli occhi dal libro e ti guardi intorno, pensi quello che si pensa quando si legge la fantascienza. Dopo un po’ di stordimento, dici: “Allora era solo una fantasticheria”. Missitalia è diverso dalla maggior parte delle cose a cui in Italia diamo il nome di “romanzo”. È un tunnel, un gioco, un’esplorazione intensa. Richiede tempo e sforzo. È letteratura pura: invenzione, avventura, coraggio, e un’eco sul contemporaneo sempre acquattata tra gli eventi. (Davide Coppo)

Ottessa Moshfegh, McGlue (Feltrinelli)
McGlue, il primo libro di Ottessa Moshfegh, pubblicato in inglese 10 anni fa e ora tradotto da Gioia Guerzoni per Feltrinelli, è sorprendentemente simile al suo romanzo più famoso, Il mio anno di riposo e oblio, per il modo in cui l’unico interesse del protagonista, un marinaio alcolizzato con un buco nel cranio, è riuscire a stordirsi continuamente per cercare di scappare dai suoi stessi pensieri. Uno scopo che si manifesta in una scena in cui cerca letteralmente di estrarsi il cervello dalla testa: metafora potente non solo della dipendenza (perché questo è anche un libro sulla potenza e l’orrore del rapporto di un alcolista con l’alcol), ma della nostra continua ricerca (consapevole o inconsapevole) di evadere dalla nostra stessa testa. Parlando con noi del libro durante la presentazione a Milano (e in questo video) la scrittrice ci ha rivelato di aver iniziato a scriverlo nel 2009 ma di andarne ancora fierissima. Si legge in una sera, McGlue, e sembra di vivere l’ubriachezza e l’hangover, la disperazione e l’amore (perché è anche una struggente e tragica storia d’amore), la misteriosa disperazione – e la bellezza – dell’altro carismatico protagonista (no spoiler). Rimangono addosso gli odori malsani, tra vomito, sangue e sudore – e il buio, le onde, il mare grigio, marrone o verde – ma soprattutto si riconosce il ritmo (velocissimo, come una confessione tanto attesa che esplode all’improvviso) e il tono di voce intriso di una certa particolare, rinfrescante “cattiveria”: le caratteristiche che ci hanno fatto innamorare tutti (compreso Yorgos Lanthimos, che trasformerà Il mio anno in un film) della scrittrice Ottessa Moshfegh. (Clara Mazzoleni)

Tama Janowitz, Schiavi di New York (Accento Edizioni)
Tama Janowitz è un nome mitico ma solo per chi è abbastanza vecchio da sapere cosa sia stato il Literary Brat Pack, cioè quel gruppo, accomunato un po’ dalla reale frequentazione, un po’ dal marketing, di giovanissimi scrittori cool americani di cui facevano parte Bret Easton Ellis, Donna Tartt, Jay McInerney e appunto Janowitz, tra questi sicuramente la meno conosciuta e venerata in Italia. Il suo libro più famoso, Schiavi di New York, uscì per Bompiani nel 1987, circa un anno dopo l’edizione originale, per poi finire fuori catalogo, fino a questa ripubblicazione di Accento, in un’edizione tra l’altro bella graficamente e morbida tra le mani come un vecchio tascabile. Molte delle cose che rendono Schiavi da New York un libro da leggere sono ricordate da Veronica Raimo nella prefazione, dove si insiste sul fascino che ha irradiato la New York degli anni ’80 nelle opere artistiche, musicali, letterarie e cinematografiche dell’epoca (i Talking Heads, Fuori Orario, Warhol per dirne giusto tre). E questa è la bellezza quasi da racconto storico di questo libro, che tuttavia mantiene nel 2024 una freschezza letteraria sorprendente. Leggendo i racconti uno dietro l’altro, si oscilla continuamente tra il pensiero passatista “ah come si scriveva bene una volta”, e quello nichilista “nessuno è in grado di scrivere così oggi”. C’è una grana magica che si percepisce subito in mezzo alla righe. Dietro le apparenze glam di Janowitz – bello riguardare le sue vecchie foto mondane con look pazzeschi e un taglio di capelli che fa pensare a Cindy Lauper o a Nan Goldin – si sente anche la grande scuola del racconto americano. Spesso veniva chiamato in causa Carver come padre putativo di questi scrittori, ma nel caso di Janowitz, sarebbe forse più appropriato parlare di Grace Paley e della sua letteratura quotidiana. Sempre di storie di donne si tratta, ma non in questo caso di giovani casalinghe di periferia che portano i figli al parco, quanto di giovani gentrificatrici, artiste, creative, studiose, protagoniste di relazioni fallite o solo intuite, di guerre tra sessi, raccontate con un timbro che ha sempre qualcosa di comico o stralunato, e che lanciano, altra cosa sorprendente, echi in qualunque esistenza urbana di oggi. Finché nessuno scriverà e pubblicherà Schiavi di Milano, ce lo faremo bastare(Cristiano de Majo)

Helen Macdonald e Sin Blaché, Profeta (Feltrinelli)
Ho letto Profeta perché non volevo rileggere per l’ennesima volta Solaris, e non ho mai trovato un altro romanzo che nella premessa si avvicinasse così tanto a quello di Lem come questo scritto da Helen Macdonald – autrice del memoir H is for Hawk, uscita in Italia con lo sfortunato titolo Io e Mabel, ovvero L’arte della falconeria – e Sin Blaché. In Solaris era il mare vivente a manifestare i ricordi felici degli abitanti della stazione spaziale, per fini indescrivibili e inconoscibili come il mare vivente stesso. In Profeta, romanzo che non ha certamente le pretese filosofiche dell’altro, c’è un’organizzazione terroristica che fa quasi la stessa cosa: usa un gas che materializza davanti agli occhi di chi lo respira il ricordo più felice della vita. Una persona, un animale, un luogo, qualsiasi cosa. Per la vittima, la nostalgia è tale che alla fine diventa mortale, e se in Profeta si volesse proprio trovare un rimando all’attualità, un messaggio alla società, sarebbe questo: di nostalgia si muore. Ma il romanzo funziona così bene – nella serie di pittoreschi omicidi che compongono la trama da detective fiction, nei dialoghi tarantiniani, nella caratterizzazione da strana coppia/buddy cop che tiene assieme i protagonisti Rao e Rubenstein – che alla fine in chi legge rimane solo il desiderio impaziente e divertito di scoprire “come va a finire”. Motivo per il quale, se siete alla ricerca di un libro che assomigli a SolarisProfeta è quello più sbagliato che ci sia: non è certamente un romanzo di fantascienza. Ma se siete alla ricerca di un (quasi) giallo, di un giallo simile a uno di quelli che nel Novecento hanno fatto di questo genere letterario uno degli intrattenimenti popolari per eccellenza, Profeta è il romanzo perfetto. (Francesco Gerardi)

Ia Genberg, I dettagli (Iperborea)
«Viviamo così tante vite dentro una vita sola, vite più piccole con persone che vanno e vengono… Forse è così che si può descrivere la pienezza». Potrebbe essere questa, insieme alla citazione in quarta di copertina, la frase migliore per raccontare cosa c’è dentro I Dettagli di Ia Genberg. Quattro racconti i cui titoli prendono spunto dai diversi protagonisti di ciascuno, scritti in un momento di malattia da una voce narrante che non ha nome e che vive il suo passato attraverso le intersezioni più o meno a lunghe con Johanna, Niki, Alejandro e Birgitte. Per Genberg sono infatti le persone che si incontrano, le connessioni che ne derivano, a rendere questi momenti valevoli di essere vissuti, ricordati e raccontati. Quattro spaccati di vita piuttosto semplice, per certi versi banale, ma che crescono in intensità e profondità quasi a mostrarci come a volte, nella migliore delle ipotesi, l’età adulta riesca a portare in sé, nella propria vita e nelle relazioni che la popolano, una sintesi e un senso prima – da adolescenti o young adult – impensabile. Tanto quanto i primi due racconti (Johanna e Niki) risultano effimeri, confusi e quasi accidiosi, infatti, i secondi due (Alejandro e Birgitte) riescono a fissare i momenti, i pensieri e i fatti della vita della protagonista con ineluttabile forza e consapevolezza. A dare ancora di più questa sensazione di switch, di varco temporale, quasi come se questo cambio di prospettiva fosse prodotto da un bug sconosciuto all’autrice e a noi umani – il passaggio dal secondo al terzo millennio. Quei giorni tra il 1999 e il 2000, dove tutto sembrava possibile e affascinante perché ignoto, uno spartiacque temporale che tante volte, prima e dopo, ci siamo sforzati di definire, ma che in realtà è stato definito soltanto da ciò che è accaduto nei giorni e negli anni. La vita, i dettagli, appunto. (Teresa Bellemo)