Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a gennaio in redazione.

Raven Leilani, Photo: Nina Subin

Raven Leilani, Chiaroscuro (Feltrinelli)
Trad. di Stella Sacchini e Ilaria Piperno
«Io non ho bisogno di te», per Edie è soltanto un pensiero. Ha 20 anni, lavora in una casa editrice e condivide un appartamento infestato da scarafaggi a Bushwick. Prende costantemente scelte sbagliate, dorme con alcuni colleghi, fino a quando incontra Eric, un uomo sposato ma in una relazione aperta, molto più grande di lei, ed è allora che le cose si complicano: perché Eric è bianco, e Edie è nera. Quella raccontata in Chiaroscuro, romanzo d’esordio di Raven Leilani, è una deprimente storia d’amore intergenerazionale e interraziale, riferita con estrema ferocia. Senza fare alcun tipo di predica ma facendo ridere, invece, al modo in cui ci riusciva la protagonista di Fleabag (se Chiaroscuro dovesse mai diventare una serie, e potrebbe, dovrebbe dirigerla proprio Waller-Bridge): dissezionando la propria vita e la perdita con un umorismo perverso, rassegnato, e una prosa talmente pittorica da essere opprimente. Nonostante Leilani evidenzi le differenze strutturali ancora presenti in America tra bianchi e neri e tra uomini e donne, quella di Edi è più che altro una storia divertente e crudele su quanto sia difficile essere una ragazza in questo momento. Anche se lo sa, «io non ho bisogno di te», ha inseguito gli uomini lungo il corridoio quando se ne stavano andando, non tanto per affetto, quanto per noia. Si è sempre librata sopra alle situazioni riconoscendo che quello che stava facendo fosse sbagliato, ma senza fare mai nulla per correggersi. «Ci guardiamo nello specchio del bagno e ci sono un po’ di cose che vorrei dire, scuse, recriminazioni che si stringono tutte in un suono strozzato, inarticolato», vorrebbe sparire e invece rimane. Uno straordinario racconto soggettivo sull’autodistruzione, tanto onesto da diventare una storia in cui è fin troppo facile riconoscersi. (Corinne Corci)

Teresa Ciabatti, Sembrava bellezza (Mondadori)
Come insegna Tiziano Ferro, sopravvivere a un’adolescenza infelice è una specie di maledizione: significa restare per sempre incollati a un’immagine di sé difettosa e all’idealizzazione dei propri carnefici. Nonostante tutti i progressi e i traguardi, la lingua tornerà a battere dove il dente duole, proprio perché ogni risultato sarà una risposta, una reazione e una vendetta. A 48 anni la voce narrante di Sembrava bellezza, scrittrice di successo, non ha smesso di rivolgersi al suo vero pubblico: gli ex compagni di classe del liceo. È una madre maldestra, una moglie traditrice, un’amica ambivalente, un’amante insoddisfatta, una donna che accoglie con disagio l’arrivo della menopausa. Martire della scrittura, Teresa Ciabatti si racconta impietosamente, in tutta la sua fallibilità, fisica e morale, costruendo una storia che oltrepassa il tempo e lo spazio per unire tutte le ragazze perdute, sparite, rapite, distrutte, interrotte, letteralmente o metaforicamente. E sotto all’egoismo che ama ostentare, sotto al tranello delle descrizioni che non descrivono niente, l’autrice nasconde, quasi con imbarazzo, un nucleo caldo di empatia e tenerezza, che si svela attraverso il rapporto con le due vere protagoniste del libro, Federica e Livia. Con la sua tragica storia (un misterioso incidente le danneggia il cervello, lasciando intatta la sua bellezza), Livia – il titolo parla di lei – incarna la fugacità di una perfezione che poche donne hanno la fortuna di assaporare. Ma è proprio nell’invidia di tutte le altre che questo stato di grazia si salva e sopravvive. Pur essendo scritto in prima persona, pur presentandosi come storia vera, questo libro è il contrario della mitomania (termine molto caro all’autrice di La più amata): è una celebrazione corale della femminilità in tutta la sua terribile potenza. (Clara Mazzoleni)

Katharina Volckmer, Un cazzo ebreo (La Nave di Teseo)
Trad. di Chiara Spaziani
Nell’edizione inglese, il romanzo-confessione di Katharina Volckmer si intitola The Appointment (Story of a Cock), in quella americana il sottotitolo diventa invece A Jewish Cock. In quella italiana, è direttamente Un cazzo ebreo, nella traduzione di Chiara Spaziani per La Nave di Teseo, opera prima della scrittrice tedesca, classe 1987, che vive a Londra e lavora per l’agenzia letteraria RCW. Il suo debutto avviene in inglese, la sua seconda lingua, che Volckmer ha scelto per raccontare una storia che fa venire in mente l’introspezione dissacrante di Thomas Bernhard e il Lamento di Portnoy di Philip Roth. La protagonista senza nome è in uno studio medico, e senza voler svelare troppo della trama, si lancia in un monologo rivolto al dottor Seligman che la sta visitando, un flusso di coscienza in cui, tra le altre cose, confessa un’inspiegabile attrazione sessuale nei confronti di Hitler, racconta episodi della sua vita quotidiana – come il licenziamento per un atto di rabbia, «non credo che minacciare di graffettare sulla scrivania l’orecchio di un collega mentre si brandisce una spillatrice in aria possa davvero essere considerato un gesto di violenza», o le passeggiate al parco che si trasformano in un’invettiva contro le chiacchiere di circostanza «quando vengo esposta alle chiacchiere senza senso degli altri una fortissima esigenza di uccidermi si impossessa immediatamente di me». Cruda e divertentissima, Volckmer utilizza poco più di cento pagine per rimestare nel senso di colpa storico del popolo tedesco, ma anche per parlare di cose intimissime, come il corpo e i suoi cambiamenti, un parallelo che agli editori in Germania non è piaciuto molto, come ha raccontato lei stessa in un’intervista al Guardian. Un cazzo ebreo si divora in poche ore, provoca risate e repulsione, ed è un romanzo europeissimo che dimostra come i Millennial, coi loro dubbi e le loro insicurezze, possano ancora fare letteratura e non solo battaglie social. (Silvia Schirinzi)

Omar Meir Wellber, Storia vera e non vera di Chaim Birkner (Sellerio)
Trad. di Margherita Carbonaro
Qualche tempo fa mi sono imbattuto in un servizio fotografico su un concorso di bellezza in Israele chiamato Miss Olocausto, o qualcosa del genere. Potevano parteciparvi soltanto anziane sopravvissute ai campi di lavoro o di sterminio tedeschi: era una festa, e molto kitsch, e tutte queste signore rugosissime e truccate sembravano divertirsi molto. Non sapevo se essere ammirato, o divertito, o indignato. Sicuramente ero affascinato. È una sensazione di confusione emozionale a cui ho ripensato leggendo Storia vera e non vera di Chaim Birkner, piccola epopea ebraica dagli anni Dieci in Ungheria fino a oggi in Israele, passando per le persecuzioni naziste, la fuga nella Palestina britannica, l’epica dei kibbutz, fino all’Israele contemporaneo, ex sogno di libertà tradito dalla destra. A raccontare tutta la storia è Chaim Birkner, che ha 108 anni e ha attraversato le guerre in Europa e quelle in Palestina, con tutti gli amori e le delusioni e le rinunce e i figli e la ricerca costante di un posto in cui sentirsi a casa, la ricerca delle proprie radici a ritroso dopo che si è scappati. La piccola e grande epopea è raccontata davvero con i modi di un ultracentenario, con piani temporali che a volte si confondono, e mischiano il deserto del kibbutz con la Budapest degli anni Trenta. Si attraversano le macerie d’Europa e la nascita di uno stato a proposito del quale spesso, da queste parti, si confondono i crimini dei suoi governi con il motivo più profondo per cui nacque: «Israele non è la soluzione, ma è una conseguenza», dice un ragazzo nel kibbutz, ed è una frase da sottolineare. (Davide Coppo)