Attualità | Medio Oriente

Cosa capiscono i ragazzi della guerra?

Le immagini delle violenze in Medio Oriente arrivano anche a loro. Ha senso proteggerli vietando l'accesso ai social, come suggeriscono alcuni? O è possibile, e giusto, spiegare cosa sta succedendo?

di Arianna Giorgia Bonazzi

È della scorsa settimana la notizia che molte scuole e associazioni di genitori isrealiane stanno consigliando alle famiglie di cancellare i social media dai dispositivi dei loro ragazzi, per proteggerli da immagini scioccanti, come gli appelli disperati degli ostaggi. In seguito, anche le scuole americane e inglesi, preoccupate dalla disinformazione sulla nuova guerra e dai suoi effetti angoscianti, hanno consigliato ai genitori la stessa politica. Su TikTok, il social ormai invaso da noi vecchi, ma tradizionalmente avamposto dei ragazzini, da dieci giorni a questa parte circolano materiali fake, come video mal tradotti e mal sottotitolati, o immagini appartenenti a guerre e crisi umanitarie del passato spacciate come ultim’ore, tanto che il 14 ottobre la Commissione europea – dopo l’ultimatum già lanciato a X di Elon Musk – aveva dato 24 ore all’amministratore delegato del social cinese per rimuovere i contenuti illegali e fuorvianti (ci sono ancora).

La maggior parte dei siti d’informazione consiglia ai genitori di interrogare i ragazzi sui contenuti visualizzati in questi giorni, e si concentra sulla prevenzione e sull’educazione digitale: aumentare i blocchi per non venire più in raggiunti da immagini sensibili, imparare a riconoscere la contraffazione, o, in ultimissima battuta, rivolgersi ai grandi se si è rimasti sconvolti da qualcosa. Io invece mi preoccupo quasi del contrario. Entro, col suo permesso, nell’account TikTok di mia figlia, e mi imbatto in un video di cattivissimo gusto con tante emoji in lacrime appiccicate sopra a un uomo affranto in camice che abbraccia alcuni parenti. La scritta catchy dice: un medico rimane scioccato quando si accorge che uno dei bambini arrivati morti in ospedale è suo figlio. Il video è costruito esattamente come i video commoventi acchiappa-click “un bambino vede per la prima volta dopo l’operazione agli occhi,” solo che crea l’effetto opposto. Le immagini, in questo caso, non sembrano corrispondere all’interpretazione fornita. Per quel che vediamo, potrebbe trattarsi benissimo di un dottore che consola i familiari di un ferito. Vorrei spiegare a mia figlia: non c’è nessuna voce di un reporter che attesta la sua presenza sul posto e ne valida la testimonianza; quelle faccine piangenti poi cancellano gran parte dell’ambientazione.

Ma mia figlia non mi ha chiesto niente a proposito di questo o di altri video di neonati fasciati e macchiati di sangue, o di mamme che baciano per l’ultima volta il volto pixellato del loro bambino. Guardo ancora: Kamal, 7 anni, è inquadrato in primissimo piano su una sedia a rotelle, mentre piange e ripete il nome di qualcuno con lo sguardo rivolto in basso. Le didascalie dicono che invoca il fratello maggiore, 14 anni, che giace morto a terra ai suoi piedi, e assieme al quale si era svegliato in piena notte sotto le bombe, mentre quello gridava aiuto. Ma se stanno visualizzando queste cose, perché i ragazzi non ci chiedono niente?

State parlando del nuovo conflitto in corso a scuola? Il prof di storia non è ancora stata nominato, è la risposta laconica del liceale. Sai dove si sta svolgendo la guerra di cui TikTok ti mostra le immagini, chiedo alla minore. Non sono sicura, fa. Me lo dici tu? Allora lo inchiodo davanti ai video YouTube del prof di BarbaSophia, il podcast divulgativo e amichevole che ha avuto così tanto successo negli ultimi anni tra gli studenti abbandonati. Ma perché a scuola non c’è un insegnante, non necessariamente assegnatario della cattedra di storia, che decide di iniziare la giornata aprendo un giornale?

Quando collaboravo con Emergency, durante l’evento annuale in streaming dedicato ai ragazzi delle superiori, i ragazzi mandavano le loro domande in dm. Una diceva: «La scuola non ci aiuta a capire esattamente cosa sia la guerra. Nello studio della storia non si riesce a raccontare la profonda sofferenza causata dalla guerra». L’associazione ha un’etica molto precisa riguardo al tipo di immagini da condividere, diametralmente opposta al panico sensazionalistico che possono scatenare i social. La primissima campagna sulla guerra del Ruanda era fatta di riquadri neri con la scritta: “Quello che Emergency vede, non ve lo fa vedere” (e non era rivolta ai bambini).

Io non sono sempre d’accordo. Leggo il consiglio dello psicologo intervistato in questi giorni da Cbs News, «parlategli perché non abbiano così tanta paura», e mi dico: ma perché i ragazzini newyorkesi (o italiani) non dovrebbero sentirsi turbati, se altri bambini stanno vivendo questa cosa sulla loro pelle? La famosa foto della bambina del napalm, che fugge nuda e urlante nel villaggio di Trang Bang in Vietnam, comparsa sulla prima pagina del New York Times il 9 giugno 1972, e definita «l’immagine che non doveva essere mostrata di un evento che non avrebbe dovuto accadere», ha tormentato le coscienze delle persone a lungo, e secondo alcuni è stata decisiva per movimentare l’opinione pubblica e mettere fine alla guerra in Vietnam.

Mi rendo conto che però qui il tema è un altro, e riguarda nello specifico i ragazzini sovraesposti allo spettacolo del dolore. Carlo Garbagnati, cofondatore di Emergency, a tal proposito scriveva che «non si è disposti a convivere con gli incubi, ed è fisiologico sottrarsi all’orrore: le forme di questa autodifesa potrebbero diventare la rassegnazione che accetta l’orrore […] o la rimozione che cancella gli incubi». Non controllando né guidando il consumo di orrore da parte dei nostri minorenni staremmo dunque immunizzandoli dalla capacità di sentirsi coinvolti. Anestetizzando la loro voglia di capire. Se questa roba passa in mezzo al flusso del make-up, dei trick sportivi e delle abbuffate, e posso swappare via, dev’essere qualcosa che non mi riguarda. Ecco forse la fonte di quelle non-domande, di quei silenzi che arrivano molto spesso da ragazzini normali, non da mostri anaffettivi.

D’altra parte, noi tutti, condotti allegramente dai nonni alle domeniche aperte in caserma, tra carrarmati e aerei da guerra, ci chiedevamo a cosa serviva tutta quella ferraglia annunciata da bande e fanfare? È una cosa diversa, certo, ma ricordo bene anche che vivevo le immagini della guerra jugoslava al Tg serale come qualcosa di ineluttabile e lontano, sebbene ogni tanto arrivasse un nuovo compagno di classe che aveva attraversato l’Adriatico in fuga. Eppure, una sola generazione ci separava dal racconto in prima persona delle bombe: allevati dai superstiti, non potevamo scartare un pezzetto di carne senza che ci venisse ricordata amaramente la fame, non potevamo disprezzare un paio di calze senza che qualcuno ci rinfacciasse il freddo nei rifugi antiaerei. Ma quel freddo, quella fame, e soprattutto quella paura, non sapevamo immaginarli abbastanza.

Dubito che domani Matteo Saudino di BarbaSophia sarà nominato titolare della cattedra di storia della classe di mio o di vostro figlio. E dubito anche che impedirò ai miei figli di continuare a informarsi rischiosamente e maldestramente sui social: mi sembrerebbe totalitario. Tutto quello che posso fare è bussare alle porte delle loro stanze, e chiedere cosa abbiano visto oggi e cosa diavolo stiano capendo. Spiegare quel che ho capito io. E poi confessare che nessuno, evidentemente, ci ha capito abbastanza.