Cultura | Tv

Girl in the Picture, un documentario che sembra un film di Lynch

Il film Netflix diretto da Skye Borgman racconta un incredibile caso di cronaca nera degli anni Novanta risolto soltanto qualche anno fa grazie a un libro.

di Studio

Il nome di Skye Borgman ha iniziato a comparire sulle riviste quando il suo documentario del 2017 Abducted in Plain Sight, realizzato dalla casa di produzione Top Knot Films (fondata col marito nel 2010), è approdato su Netflix nel 2019. Così come nella storia dei criminali di cui racconta le gesta, nel modus operandi di Borgman si possono riconoscere alcuni pattern. Il primo è un classico dei registi di true crime: partire da un libro e trasformarlo in un film montando insieme alle testimonianze di famigliari, amici e parenti della vittima, collage di foto d’archivio e ricostruzioni di frammenti video. Nel caso di Abducted in Plain Sight si partiva da Stolen Innocence: The Jan Broberg Story, un libro di memorie scritto a quattro mani da Jan Broberg Felt, per due volte vittima di rapimento, e da sua madre. Nel caso del documentario appena arrivato su Netflix, Girl in the Picture, si parte dal libro del giornalista investigativo Matt Birkbeck A Beautiful Child, e poi si va avanti, perché grazie a quel libro pubblicato nel 2005, il caso, rimasto irrisolto dal 1990, arriva finalmente a un’enorme svolta (raccontata nel sequel dello stesso autore, Finding Sharon). Guardando questi due film emerge un altro pattern. In entrambi i casi Borgman racconta la storia di due ragazze bellissime e dell’uomo che ha rovinato loro la vita.

Se la protagonista di Abducted in Plain Sight, la splendida attrice e ballerina Jan Broberg, è ancora viva, la ragazza di cui parla Girl in the Picture muore a vent’anni. Il documentario inizia dalla notte in cui viene trovata sul bordo di una strada. È piena di lividi, bionda e molto bella. Non siamo a Twin Peaks ma a Oklahoma City, e la ragazza, ancora viva quando viene portata in ospedale, muore poco dopo. Secondo quanto riferito da suo marito Clarence, un uomo molto più anziano di lei, la donna, il cui nome è Tonya Hughes, sarebbe stata investita da un’auto, ma c’è qualcosa che non quadra: il corpo non riporta traumi da incidente. Tonya e il marito hanno un figlio di due anni, Michael, che viene dato in affidamento, proprio perché questo Clarence sembra un tipo poco affidabile. Per mantenersi Tonya faceva la stripper: appresa la triste notizia della sua morte, le sue colleghe cercano sull’elenco il nome della madre per farle le condoglianze. Risponde una signora che dice che sì, sua figlia si chiamava Tonya Huges, ma che era morta quando aveva 18 mesi. La loro collega, quindi, non era Tonya Huges. Ma allora chi era?

Non vogliamo commettere l’errore fatto dalle recensioni entusiaste che si trovano online, compresa quella del Guardian (quattro stelle su cinque), di raccontare tutta la storia. Il consiglio è di guardare il documentario senza saperne niente: quella di Girl in the Picture è una storia che lascia letteralmente a bocca aperta. Gradualmente il documentario rivela le varie identità della ragazza e di quello che all’inizio viene presentato come il marito Clarence. In un bell’articolo da leggere dopo aver guardato il film, il Daily Beast lo definisce il documentario più contorto dell’anno. L’unica cosa che si può sottolineare senza rischio di spoiler è la qualità dello sguardo della regista che riesce a mantenere fino alla fine la giusta distanza dalla storia che racconta, né troppo vicina né troppo lontana. Viene voglia di guardare un altro suo documentario del 2021, Dead Asleep, distribuito da Hulu. Il pattern si ripete: c’è una giovane, bellissima vittima e un uomo che le rovina la vita. Questo caso, però, è un po’ diverso dagli altri due. Perché racconta la storia di Randy Herman Jr., un ragazzo che ha pugnalato per 25 volte la sua coinquilina Brooke Preston senza rendersene conto, durante un episodio di sonnambulismo, uccidendola. Anche questo è successo davvero, nel 2017.