Giorgio Armani ha fatto tutto, prima di tutti, meglio di tutti

Quando ha iniziato, lo stilista era una figura ancora indecifrabile, il Made in Italy appena agli albori, e nessuno avrebbe mai immaginato che un "creatore di vestiti" potesse arrivare fin dove è arrivato lui.

05 Settembre 2025

«Giorgio Armani, 49 anni, piacentino, di professione stilista: occhi chiari taglienti, naso corto, capelli bianchi. È il Bettega della moda, a vederlo sembra solo un ragazzo un pò cresciuto, muscoloso, aitante, invece è un’impresa». Così Gianni Minoli introduceva lo stilista in una puntata di Mixer del 1983 (si ritrova qui, su Rai Play): una descrizione priva di deferenze, che risuona ancora più vera oggi, all’alba della scomparsa a 91 anni di Armani, annunciata ieri da un comunicato stampa che parla di un epilogo sereno, circondato dai suoi cari.

Un’impresa come quella della Giorgio Armani Spa, che nel 2024 ha registrato 2,3 miliardi di euro di fatturato, nell’Italia della moda di allora non si era in effetti mai vista. Nel 1975 della fondazione non erano ancora chiari i contorni di una figura, quello dello stilista, che appariva fumosa – con l’eccezione unica di Walter Albini, che non ha avuto tempo e fortuna bastante per completare l’opera – il Made in Italy era agli albori, ma soprattutto era inimmaginabile che un creatore di vestiti, e di conseguenza emblema di futilità suprema, potesse essere rilevante per un pubblico diverso da quello degli addetti ai lavori. A sconfessare quella stereotipia, nel 1982 bastò la copertina del Time col volto di Armani, un onore che era toccato a un solo altro stilista prima di lui: Christian Dior.

Una carriera capitata per caso

Il brand, lanciato quando Armani aveva 41 anni, oggi comprende molte divisioni: l’abbigliamento ready-to-wear per uomo e donna, la couture (Armani Privé), gli hotel, i ristoranti, l’Armani Club, i libri, l’oggettistica e l’interior, persino Armani/Fiori con creazioni assai composte, ordinatissime, di cui è possibile acquistare anche i vasi. Un impero che il piacentino figlio di un contabile per un’agenzia di trasporti ha costruito in cinquant’anni con ossessione maniacale, non tanto alla ricerca del successo, quanto guidato da un’etica quasi militaresca, pure se Armani raccontò dei suoi inizi a Enzo Biagi, nel 1983, dicendo che quella carriera gli era capitata per caso.

Lavorare per lavorare: un assunto dai contorni calvinisti che oggi farebbe inorridire quanti sono alla ricerca di un equilibrio più salutare tra pubblico e privato, tra vita professionale e intimità familiare, e del quale persino Armani, nella sua ultima intervista data qualche giorno fa al Financial Times, si è fatto un cruccio, ammettendo che «il mio unico rimpianto è aver lavorato troppo e non aver passato abbastanza tempo con la famiglia e gli amici».

Una dedizione testarda, al limite della cocciutaggine, sulla quale negli anni sono circolate leggende e storie confermate dallo stesso stilista. Camminare per via Monte Napoleone o Corso Venezia e scorgere la sua figura in vetrina delle boutique, impegnato a sistemare risvolti di pantaloni e nodi delle cravatte indosso ai manichini era un’eventualità possibile. E anche nell’impossibilità di presenziare fisicamente, il polso della situazione era costantemente controllato da remoto. All’ultimo show della collezione uomo, a giugno, la sua assenza era stata anticipata da un comunicato stampa ufficiale che parlava di “convalescenza”. In realtà, il signor Armani, così come lo hanno sempre chiamato dipendenti e addetti del sistema, dirigeva con precisione i lavori dalla poltrona di casa, come raccontato al Financial Times – seguendo l’evento in diretta video, approvando tutto, dai fitting al trucco, e (apparentemente) lamentandosi con i dipendenti per il ritardo con il quale la sfilata era poi iniziata.

La moda come impresa

Se il suo modus operandi è stato strumentale nel raggiungere la riconoscibilità nazionale e internazionale, c’è una percentuale seppur irrisoria di casualità, o destino per chi ci crede. Indirizzato verso una carriera da medico fortemente desiderata dal padre e non altrettanto da lui, tanto da aver intrapreso il servizio militare per rimandare gli studi, Giorgio Armani inizia per caso a lavorare in Rinascente. «Non allestivo le vetrine», specificherà lui stesso a Enzo Biagi, «ma assistevo gli architetti che si occupavano degli allestimenti».

In quel momento il suo nome viene portato all’attenzione di Nino Cerruti, definito spesso «il più francese tra gli stilisti italiani», che all’epoca stava cercando personale per sviluppare l’ufficio prodotto della Hitman, l’azienda di confezioni da lui fondata nel 1957. Da Cerruti, biellese radicato nel territorio con un lanificio ancora oggi attivo, Armani impara non solo come costruire un vestito – a decostruirlo ci penserà lui stesso dopo – ma soprattutto a vivere la moda non come velleità, ma in quanto impresa. Rapporti con i fornitori, distribuzione, conoscenza dei tessuti: tutto quanto è necessario nel pratico per gestire un brand che duri più di qualche stagione, e che prescinde il talento e la visione, di cui Armani era geneticamente già provvisto.

E tra quelle mura forse, comprende anche la potenzialità che si annida tra le colline di Hollywood, anticipando il maestro: se Cerruti debutterà al cinema vestendo Michael Douglas ne Il gioiello del Nilo, nel 1985, Armani concepirà cinque anni prima il guardaroba di Richard Gere in American Gigolo, film di Paul Schrader che consacrò il suo nome di fronte al pubblico americano. Nel 1983 apre un ufficio dedicato alla vestizione delle celebrità a Los Angeles: ancora una volta ci arriva più o meno dieci anni prima degli altri. In seguito ci sono stati altri film ( Gli intoccabili, Quei bravi ragazzi, The Wolf of Wall Street) e innumerevoli attori e attrici per i quali ha immaginato abiti che hanno superato l’esame del tempo, facendosi ispirazione per generazioni che non erano neanche nate nel 1990, quando Julia Roberts ai Golden Globe indossò un completo oversize con camicia bianca e cravatta, oggi presenza imperitura su bacheche Pinterest, reel di Instagram, video di TikTok. Attraverso il grande schermo e poi il tappeto rosso, la filosofia Armani è così arrivata nella vita dei consumatori statunitensi, che hanno in lui visto una seconda via possibile (e preferibile) ai completi muscolari degli anni ’80, gli stessi del capo ufficio incompetente e con le mani lunghe di cui Dolly Parton, Lily Tomlin e Jane Fonda si lamentavano in Dalle nove alle cinque… orario continuato.

Radicale

Laddove il decennio della presidenza reaganiana aveva prescritto per uomini e donne statunitensi un abbigliamento dai volumi antinfortunistici, e pure assai antiestetici a guardarli quarant’anni dopo, Armani ha tolto le imbottiture, svuotato rigonfiamenti di doppi petti non necessari, scarnificato le giacche riducendole all’essenza, senza però toglier loro alcuna dignità. Così facendo si è inserito nella tradizione degli stilisti made in Usa che già negli anni ’60 e ’70 avevano teorizzato un guardaroba minimalista, disinteressato all’accumulo di stampe e metri di tessuto, come Halston e Calvin Klein. Le spalle alte e la schiena dritta, l’orgoglio di chi, negli anni ’80 si presentava in ufficio sentendosi membro attivo della collettività, sono sempre sembrate per lui questione di inclinazione personale, più che di ovatta infilata su fianchi e spalline.

E anche se oggi abbiniamo erroneamente a lui l’infausta espressione moderna “quiet luxury” – per via anche della palette cromatica neutrale, con quel “greige” da lui battezzato, e che poi ha tinto perfino il suo yacht, 65 metri progettati nel 2008 dall’azienda viareggina Codecasa – nulla di ciò che ha realizzato Armani è mai stato cheto, o privo di una propria, distinta personalità, tanto che il suo cognome si è tramutato negli anni in un aggettivo.

La sua proposta di abbigliamento, che nel 2025 appare come un dato assodato, privo di criticità, sinonimo principale dell’eleganza italiana, per gli anni ’80 era sovversiva, quasi radicale. E infatti Giorgio Armani: il sesso radicale si chiama il libro di Marsilio Editori del 2015 scritto dalla giornalista di moda Giusi Ferrè, forse il documento a oggi più importante per penetrare il mistero di un uomo e di un brand che ha deciso di lavorare sul sottotraccia, più che sull’onda della moda del momento. Questo non significa che non ci siano stati momenti, in 50 anni, nei quali il suo operato è sembrato distaccato dalla contemporaneità, meno precipuo rispetto allo spirito dell’epoca. Fu lo stesso Armani, già negli anni ’80, a dire che quando la moda si tramutava in un esercizio di stile, un complemento al narcisismo del creatore, diveniva in fondo inutile e che la china discendente dell’irrilevanza la si imboccava facilmente se si perdeva di vista l’obiettivo principale: creare vestiti che i suoi/le sue clienti – giovani e diversamente giovani – potessero effettivamente indossare senza aggiungere alle tante problematiche del quotidiano l’interrogativo angosciante del “come mi vesto”. Semplificare, senza peripezie intellettuali, formalizzando un’eleganza della sottrazione che non diminuiva il valore di chi la esercitava, a costo di apparire “fuori moda”.

Un assunto che poi si è traslato in immagine e architettura, attraverso la collaborazione – pure quella costante e fedele – con artisti che hanno definito insieme a lui i confini, e a volte i limiti, di quell’universo semantico. Il fotografo Aldo Fallai, conosciuto in Toscana già prima della fondazione del suo brand, ha regalato per 30 anni una patina neo-realista e riconoscibile alle immagini di campagna di Giorgio Armani (e infatti lo scorso anno Armani/Silos ha dedicato a questa prolifica collaborazione una mostra). L’architetto giapponese Tadao Ando, con la sua sobria architettura a griglie, affine allo stilista in quell’afflato al minimalismo, ha progettato Armani Teatro, il quartiere base del brand in via Bergognone, “riciclando” un edificio precedentemente sede di Nestlé in un monumento lineare e imponente. E poi la modella Antonia Dell’Atte, fattasi immagine di quell’ideale, insieme androgino e femminile che Armani aveva già in testa, ma che non aveva mai incontrato nella vita reale: la vide per la prima volta a pranzo, da Bice, dove Dell’Atte era con amici e lui a qualche tavolo di distanza. Il giorno dopo la assunse, facendone simulacro negli anni a venire della “donna Armani”.

Granitico e sentimentale

Nel suo essere presenza nell’immaginario collettivo, Giorgio Armani è apparso granitico, eterno: nella realtà, spesso più affascinante dell’immagine di sé che si cerca di dare al mondo, è stato però anche un uomo di intime contraddizioni. Votato a una praticità senza fronzoli, che ha applicato alla vita e al guardaroba, l’ultima notizia promulgata dall’ufficio stampa prima della sua scomparsa riguardava un acquisto dal carattere sentimentale: il gruppo ha infatti rilevato La capannina di Franceschi, storico locale della vita notturna di Forte dei Marmi, dove Armani conobbe il suo compagno e socio Sergio Galeotti, scomparso nel 1985 per Aids. Un dolore del quale lo stilista, ritroso alle confidenze e alle definizioni, ha parlato solo lo scorso anno, in un’intervista al Corriere della Sera.

La sua scomparsa arriva un paio di settimane prima della fashion week milanese, mentre il brand è impegnato nelle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario di attività. Il 30 agosto è apparso online Armani/Archivio, piattaforma web che cataloga l’opera dello stilista, con l’obiettivo dell’apertura di uno spazio fisico a Milano; il 24 settembre è invece prevista l’inaugurazione di una mostra alla Pinacoteca di Brera con 150 look, e sarà la prima volta nella quale l’istituzione culturale ospiterà un’esposizione di moda; il 28, nella stessa sede, andrà in scena invece la sua sfilata. E sembra uno strano caso che la Pinacoteca sia ben visibile dall’appartamento del centro di Milano dove Armani ha abitato fino alla sua scomparsa: chissà che non avesse intenzione, per un ultima volta, di controllare che tutto filasse alla perfezione.

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