Cultura | Letteratura

Le api hanno qualcosa di speciale

Pubblichiamo un inedito dello scrittore Fredrik Sjöberg, che domenica sarà a Milano, ospite del festival I Boreali di Iperborea.

di Fredrik Sjöberg

Pubblichiamo un inedito – tradotto da Andrea Berardini – dello scrittore, entomologo, collezionista e giornalista culturale Fredrik Sjöberg, che domenica 19 marzo, durante il festival I Boreali di Iperborea, sarà protagonista di un incontro (“L’arte di collezionare storie”, al Café Rouge del Teatro Franco Parenti di Milano, alle ore 18) assieme al direttore di Rivista Studio Cristiano de Majo. 

Bruce Chatwin ha lodato a non finire questo posto. Lo capisco. Questa torre medievale, sui colli a est di Firenze, è perfetta per chi voglia lavorare in pace, o semplicemente desideri godersi un anticipo di primavera. Anche se siamo solo all’inizio di marzo, fuori dalla mia finestra i ciliegi selvatici sono in fiore e proprio adesso tra i petali c’è una mezza dozzina di api legnaiole (Xylocopa violacea) dalla livrea cangiante tra il blu e il nero. Sono creature massicce, grandi come calabroni. Questa specie non tollera gli inverni svedesi, ma l’anno scorso ne è stato trovato un esemplare nella fabbrica della Volvo di Skövde. Le api hanno davvero qualcosa di speciale.

Anche la sfinge del galio, così simile a un colibrì, meriterebbe un po’ di attenzione, così come tutte le farfalle e i sirfidi affaccendati là fuori, nella calura, ma oggi sono le api a catturare il mio interesse. I bombi e le api legnaiole nero-blu sono solo la prima fila; poco più in là ronzano centinaia di api da miele, perché a una certa distanza da qui, tra le querce del bosco, c’è una radura piena di lunghe file di arnie. Non ho idea di chi sia l’apicoltore, né di che gusto abbia il suo miele, ma grazie al libro di Göran Bergengren, Il senso delle api, so che un chilometro e mezzo in una direzione o nell’altra non fa alcuna differenza: le api da miele trovano comunque la strada.

Tornerò su Bergengren, ma prima permettetemi di dire qualche parola su un altro libro nella mia nutrita biblioteca da viaggio, un saggio altrettanto recente di Lotte Möller, Le api e gli uomini. Merita di essere citato qui se non altro perché l’autrice, dopo una serie di divertenti divagazioni nella storia della cultura, fa infine tappa a Bologna, non molto lontano da dove mi trovo. Lì, racconta Möller, esiste un istituto di istruzione superiore unico al mondo che offrire corsi avanzati di analisi sensoriale del miele. In poche parole, vi si formano degustatori di miele, le cui competenze nulla hanno da invidiare a quelle dei sommelier di professione.

Il paragone con i sommelier è azzeccato, perché il gusto del miele può variare moltissimo, proprio come il vino, e ne esistono parecchie qualità scadenti piene di additivi innominabili. Si dice che il miele sia uno dei cibi più contraffatti al mondo; già nel Cinquecento, Olaus Magnus si lamentava degli imbrogli. Quindi c’è bisogno dei connoisseur, e la loro missione è quanto mai opportuna. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando l’Associazione nazionale apicoltori svedese pretendeva che le diverse qualità di miele venissero mischiate per dar vita a un generico miele svedese del tutto ordinario. Il dibattito, e i paragoni beffardi con un ipotetico Vin français, crearono all’epoca uno scisma nei ranghi sempre caparbi degli apicoltori.

Oggi il settore non è più dominato dagli allevatori tradizionalisti, i cosiddetti «apai», e le ragioni per cui ci si dedica a quest’attività sono più variegate. Certo, molti continuano a produrre miele a fini commerciali, ma sono sempre di più quelli che si dedicano all’apicoltura per rallentare il ritmo, come se fosse un atto di resistenza. Oppure c’è chi decide di allevare prevalentemente api impollinatrici. Sempre più di frequente si leggono notizie allarmanti sulla scomparsa degli insetti impollinatori nel paesaggio biologicamente desertificato dell’agricoltura industrializzata, e anche se i media hanno perlopiù la tendenza a esagerare, la situazione è davvero seria. Abbiamo messo fuori legge il DDT, è vero, ma con i veleni più recenti, tra cui i subdoli neonicotinoidi, non c’è certo da scherzare.

«Gli apicoltori sono quasi sempre persone cortesi e gradevoli» scrive Lotte Möller, ma poi si affretta a mettere le mani avanti: «almeno presi uno per uno». A quanto pare, come categoria possono rivelarsi più complicati da gestire, e non mi riferisco necessariamente ai vegani più bellicosi e intransigenti, secondo i quali le api sono schiavizzate, né agli antroposofi fanatici che, per ragioni spirituali, raccomandano arnie dalla particolare architettura. No: gli esempi più lampanti della tendenza al settarismo e alle faide che imperversa tra gli apicoltori vanno a toccare un altro dei fronti caldi della contemporaneità, che può essere facilmente ricondotto alla questione razziale: non la razza degli apicoltori, ma quella delle api. Un conflitto vasto quasi quanto quello dell’isola di Cipro.

Le cose stanno così: fin dai tempi più remoti, tutte le api da miele nell’Europa del nord appartenevano alla sottospecie Apis mellifera mellifera, un insetto di colore marrone scuro che si distingue anche sotto altri aspetti dall’ape italiana (Apis mellifera ligustica), più tendente al giallo, cioè la sottospecie che sta volando fuori dalla mia finestra mentre scrivo. Poi si scoprì che le api italiani erano un po’ più produttive di quelle nordiche, ragion per cui già nell’Ottocento cominciarono a diventare popolari anche tra gli apicoltori nordici. E siccome grazie all’allevamento selettivo e alle ibridazioni era possibile aumentare ulteriormente la produzione, verso gli anni Settanta del Novecento si iniziò a temere che di lì a breve la razza nordica autoctona sarebbe stata totalmente eradicata.

Nello stesso periodo, vennero individuate alcune colonie di api di razza pura in tutto il Nord, e una delle popolazioni residuali più resilienti fu scovata in Danimarca, a Læsø nel Kattegatt, un’isola piuttosto povera i cui abitanti avevano campato a lungo depredando relitti e, più di recente, si erano votati al turismo e alle colture più semplici, tra cui l’apicoltura. Una scoperta confortante, certo, in seguito alla quale si decise che l’isola doveva essere riservata alle api brune. Non andò benissimo. Ben presto l’associazione degli apicoltori locali si spaccò in due fazioni ostili, i gialli e i bruni, e anche se il governo intervenne con tanto di nuove leggi, risoluzioni dell’ONU e sentenze della Corte europea, il conflitto rischiò l’escalation.

Chi ne senta l’esigenza, può qui dare sfogo a tutti i suoi pregiudizi sui danesi o, se preferisce, sugli isolani, ma sta di fatto che quella che a un primo sguardo pareva una bazzecola si trasformò negli anni in un’aspra resa dei conti, che ricorda non poco l’inestricabile impasse di Cipro. Infine, le autorità si videro costrette a dividere l’isola: per il momento si è riusciti a scongiurare l’arrivo delle api gialle nell’estremità nordorientale, e questa zona è protetta da un cordone sanitario largo sei chilometri, interdetto persino agli ibridi.

La questione è tutt’altro che semplice, davvero spinosa. Per certi versi, i tentativi di salvare le api nordiche ricordano quei progetti di allevamento selettivo volti a preservare razze autoctone di pollame e bovini a rischio di estinzione, iniziative motivate da obiettivi sia culturali che genetici ma spesso velleitarie. Va da sé che le api nordiche siano più adatte ai rigori del nostro clima, ma non c’è consenso, com’era inevitabile, su quali razze o ibridi producano più miele.

Al tono drammatico di tutta la vicenda contribuisce anche, per altri versi, il fenomeno del cosiddetto CCD – Colony Collapse Disorder – di cui si parla molto negli ultimi anni, che consiste nell’improvviso tracollo di intere colonie di api, ciascuna costituita da milioni di individui. La causa esatta non è stata ancora individuata con precisione, ma è possibile che si tratti dell’effetto combinato di pesticidi, virus e parassiti. Come che sia, che la biodiversità delle api sia la più ampia possibile è indubbiamente un vantaggio. Le monocolture troppo omogenee comportano sempre dei rischi, che si tratti di piante o insetti. Negli Usa, dove la moria delle api colpisce più che altrove, l’impollinazione dei mandorleti e di altre monocolture è un’attività fondamentale.

Lotte Möller parla di questo e di molto altro. Non da ultimo si sofferma sulla lunga sequela di padri della Chiesa, imperatori e filosofi che, nel corso dei millenni, hanno usato la società delle api come simbolo, allo scopo di rinsaldare l’etica della gente comune e il proprio potere. Disciplina, divisione del lavoro e riscossione dei tributi: l’alveare si può leggere come un libro aperto. Certo, l’idea di una regina è risultata a lungo indigesta, e si è sostenuto, contro ogni evidenza, che tutte le colonie di api fossero governate da un re, ma in generale l’alveare veniva presentato come il migliore modello di organizzazione sociale. C’è chi sostiene che La favola delle api di Bernard de Mandeville (1714) abbia influenzato intere generazioni di conservatori, da Adam Smith a Milton Friedman.

A questo punto, è quanto mai confortante tornare a Göran Bergengren, il quale, a differenza di Möller, non è un giornalista ma fondamentalmente un poeta. È un apaio di lungo corso, a suo modo un tradizionalista, per quanto profondamente condizionato dal radicalismo del movimento ambientalista degli esordi. È abbastanza anziano da ricordare le irrorazioni aeree di pesticidi negli anni Sessanta, e da allora ha potuto osservare con i suoi occhi com’è stato modificato il paesaggio attorno a quell’idilliaca sacca di resistenza che è la sua fattoria di Åsbodalen, nella regione di Östergötland. Oggi scrive: «Le api sono un antidoto alla velocità. / Alla perdita di me stesso».

Bergengren ha continuato ad allevare api per tutti questi anni, e ovviamente ha parecchio da raccontare sugli aspetti pratici di quest’attività e sulla sua storia culturale; Il senso delle api però è soprattutto un libro che rientra in quel genere che mi piace definire «letteratura di testimonianza biologica». Il motore discreto della narrazione sono i cambiamenti, di solito in peggio, e la malinconia che essi producono. Ma, cosa singolare, malgrado tutto sopravvive anche l’ottimismo, grazie a quella che una volta l’artista Gunnar Brusewitz ha definito «la gioia del ritrovare».

La vita in campagna è alquanto monotona. Ogni anno è la stessa storia (se tutto va bene). Le tottaville punteggiano come schegge di legno il cielo sopra le fattorie, e le rondini tornano a fare il nido nei fienili. Le api continuano a sciamare, il miele andrà raccolto. Il rumore del gran mondo è lontano, come un temporale in una sera di fine estate, e forse è proprio come scrive Göran Bergengren: la questione del destino delle api è forse l’epicentro del dibattito ambientalista contemporaneo. Come se fossero canarini e il mondo intero una miniera di carbone. Il romanzo distopico di Maja Lunde, La storia delle api, va nella stessa direzione, così come a suo tempo aveva già fatto Lars Gustafsson in Morte di un apicoltore.

No, non è un caso che proprio in questo momento stiano uscendo molti libri sulle api e l’apicoltura. C’è inquietudine nell’aria. Angoscia e vergogna sono le parole del giorno, e lo ripeto: il circo mediatico, dipendente com’è dalla pubblicità, pretende un tributo in forma di drammatizzazioni esagerate in puro stile horror, ma proprio per questo i libri sono i benvenuti e, addirittura, più necessari che mai. Conoscenza e riflessione. Il rifiuto di arrendersi fa parte, per certi versi, dell’idea stessa dell’apicoltura.

D’altro canto, che un’ape legnaiola viva e vegeta, e più grande della media, sia finita nella fabbrica della Volvo di Skövde è stato solo un caso. Nessuno sa come sia andata: forse ha scroccato un passaggio a qualche merce d’importazione. Una coincidenza favorevole, probabilmente dello stesso genere della sequela di casi fortunati che hanno portato la vecchia scrivania di Bruce Chatwin in una torre del Trecento, in cima ai colli toscani, dove i ciliegi sono in fiore e il bosco si stende fin dove arriva lo sguardo.