Dal debutto nel 1945 a Roma fino a oggi, da Clark Gable a Bret Easton Ellis, vi raccontiamo la mostra organizzata al Chiostro del Bramante per celebrare la storia del brand.
Secondo la studiosa di letteratura britannica Adrianne Wadewitz, a livello cronologico uno dei primi fandom esistenti è stato quello delle Janeites, le devote alla vita (e soprattutto alle opere) di Jane Austen: una particolare forma di culto laico che risale circa al 1870. Un paio di decadi dopo c’è stato invece quello dei fan di Sherlock Holmes, che addirittura scesero in piazza per portare in pubblico le proprie rimostranze contro lo scrittore Arthur Conan Doyle che aveva “ucciso” il detective, dopo uno scontro con il Professor Moriarty nel 1893. Ne nacque una fanfiction che potesse supplire a questo errore, operativa dal 1897 al 1902, quando poi uno stremato Doyle decise di riportare il detective nei suoi libri, tramite un colpo di scena. Ma cos’è oggi, nel mondo della moda, il fandom? Come si è modificato, adattato, potenziato, grazie ai nuovi strumenti messi a disposizione dalla tecnologia? Se lo è domandato Fanverse!- The fashion code, l’osservatorio annuale di Hello che analizza come sta cambiando in Italia l’attitudine dei consumatori – e quindi anche i loro acquisti – proprio attraverso i fandom, eredi ideali di quelle che una volta erano le controculture, capaci di riunirsi e creare micro-comunità unite da una serie di valori e passioni comuni.
Attraverso un sondaggio realizzato grazie al supporto del Gruppo Bilendi – leader europeo nella ricerca di dati di mercato – e una serie di focus Group coordinati dal team di Hello su un campione formato al 50% da millennial e 50% da Gen Z – i risultati sono in effetti in linea con quanto sta succedendo fuori dalla “bolla” del fashion system, dove la moda – intesa come sistema di maison capaci di definire tendenze e prodotti di culto – è in una fase crepuscolare (complici sicuramente la situazione socio-economica e politica). Di contro però, forse nell’impossibilità di accedere – anche per impossibilità economica – ai grandi brand, si assiste allo sviluppo di un approccio metodologico diverso. Non tanto l’adesione a un singolo brand – e alla sua grammatica lessicale – quanto alla vestizione vissuta come momento di espressione creativa. Secondo il 59% del campione la moda in fondo è proprio momento di sperimentazione, e non più un insieme di trend ai quali obbedire. «Con l’arrivo della stagione degli acquisti natalizi, diventa ancora più importante capire cosa muove davvero gli appassionati di moda» spiega Sara De Mattia, managing director di Hello. «Le persone non cercano nuovi capi da accumulare, ma occasioni per esprimersi: lo dimostra il fatto che per il 59% degli italiani lo stile è ormai uno spazio di sperimentazione creativa. Non cercano brand che impongano direzioni, ma partner culturali capaci di amplificare identità, valori e appartenenze. Il fandom di stile non è una tendenza passeggera, ma un modo nuovo e profondamente personale di vivere le scelte estetiche, che diventano dichiarazioni culturali e strumenti di riconoscimento reciproco».
Nel 49% dei casi l’obiettivo primario è in effetti proprio avere uno stile originale e distintivo. L’unicità non è più però un atto compiuto in solitudine, in rottura con un sistema, ma un codice attraverso il quale riconoscere i propri simili, come è già successo fino agli Anni ’90 e i primi 2000 con tutta una serie di controculture, dai gabber ai Mod passando per i punk e i “paninari” controcultura made in Italy per antonomasia. E come per le controculture, la moda può diventare elemento di riconoscibilità subitanea, che non abbisogna di parole e spiegazioni, ma questi nuovi fandom sono uniti anche dalla passione per la musica (il 58%), il cinema (al 48%), lo sport (43%).
Se in passato i Mod ad esempio erano ortodossi e irremovibili sul tipo di musica da ascoltare (gli Who e gli Small Faces come religione) e persino sul mezzo da utilizzare, le lambrette, per muoversi nella città sulla costa dove andavano a incontrarsi e scontrarsi con gli arcinemici, i rocker, che invece arrivavano sui roboanti Chopper, oggi le novelle comunità che si aggregano (forse più sul mondo digitale che in quello reale) stanno cercando di articolare un loro vocabolario multimediale, attraverso il quale parlarsi tra loro e mostrarsi agli altri. Certo, la maggior parte di queste sotto-culture digitali non hanno la longevità di quelle nate in maniera analogica: si esprimo spesso attraverso i vari “core”, che durano mediamente assai meno, finché non sono state consumate e spolpate dal passaggio sui vari feed, appiattendosi e facendosi totalmente fagocitare dal mezzo social. E però di per sé si tratta comunque una novità rispetto all’adesione filologica alle maison a cui si assisteva fino a qualche anno fa.
Di conseguenza si capisce ancora meglio il successo del vintage o del second-hand, che il 71% di loro acquista, anche per via della sua valenza etica e della funzione di circolarità, come dimostrano anche hashtag di tendenza come #thriftflip e #vintagestrange. La destinazione preferita rimane Vinted, selezionata dal 76% del campione non solo per via del risparmio economico, ma anche per la possibilità di trovare pezzi unici, assai diversi dall’offerta spersonalizzante del fast fashion, che mima e riproduce i capi dei grandi brand. Certo, questo non vuol dire che anche i più giovani non siano personaggi in cerca d’autore, o anche solo di uno o più brand che possano rispondere ai loro bisogni, ma la ricerca è spesso infruttuosa, e lo shopping rischia di diventare un’esperienza frustrante, tra modelli estetici proposti che sono uguali a quelli di 20 anni fa, e mai però aderenti troppo alla realtà e alla molteplicità di corpi esistenti.
In questo senso i social media sono divenuti catalizzatori del cambiamento: su Instagram, TikTok e Pinterest tra “fan” ci si riconosce ancora prima di incontrarsi nella realtà, perché probabilmente si seguono gli stessi profili, ci si muove secondo gli stessi hashtag. La novità è che però sta tramontando la figura classica dei creator o influencer che dir si voglia: il 77% di loro afferma che non è “fedele” a specifici creator, ma è più interessato al contenuto, rispetto poi al contenitore (il profilo che quel contenuto lo ospita e lo racconta). Per la Gen Z, il creator è un curatore che permette di tenersi aggiornati e informati sulle novità, come dichiara il 52% di loro. Per i Millennial, invece, l’aspirazione è più legata al lifestyle: il 37% li segue perché “ispirati” dal loro percorso e, consequenzialmente, del loro successo. La vita reale però esiste, ed è considerata un viatico per sentirsi validati e accettati: delle proprie passioni il 61% parla prima di tutto con amici e il 43% con i familiari, chiedendo magari consigli e pareri. Tra i vari ritrovi reali nei quali il campione si vede dal vivo, non ci sono, se non all’11%, gli eventi di moda (sfilate, presentazioni o anche talk).
Intercettare una controcultura, un core, una community, e inglobarlo in maniera coerente nella propria narrazione, tramutandola in prodotti desiderabili sembra così un arte: il paper cita l’esempio “virtuoso”di Northface x Gucci, che attinge all’estetica Gorpcore, e crea un universo narrativo capace di indirizzarsi a una specifica fascia di utenti, e di farlo sembrando anche autentica. Non è scontato, considerato che i co-branding, esperimenti nati come contaminazioni tra realtà diverse e divenuti negli anni un’abitudine volta a spremere i risparmi dei consumatori, oggi sono accolti con scetticismo: il 44% del campione non è mai stato colpito da nessuna collaborazione e il 41% non ne ricorda una particolarmente memorabile. I brand di moda, in fondo, non hanno del tutto perso la loro centralità, ma il loro ruolo sembra modificarsi: chi li segue o li compra non lo fa per aderire a un trend, quanto per l’estetica del prodotto (31%) e lo stile di vita o status che incarnano (29%). Uno status che non è più solo economico ma anche culturale: sostanzialmente, se dovessimo parlare per acronimi, non si indossa uno specifico brand per dimostrarsi detentori di una RAL maggiore, quanto di un QI invidiabile, o quantomeno possessori di un universo di riferimenti culturali ed estetici che vanno ben oltre il mero prodotto. Quali sono quindi le strategie virtuose? I riferimenti abbondano e mettono insieme una casistica variegata: c’è la campagna LifeWear: Made for All di Uniqlo che assembla un cast eterogeneo di persone reali (artisti, atleti, persone con background diversi) che indossano i capi del brand nella loro vita quotidiana; c’è Etro che ormai da anni, in occasione delle sue sfilate, invita artisti affini alla sua estetica, incaricati di “curare” la colonna sonora dal vivo, con l’ultimo esempio de La Niña del Sud; c’è la creazione di vere e proprie esperienze, come nel caso dell’installazione immersiva di Jacquemus, che per il lancio della sua collezione ha trasformato un intero piano delle Galleries Lafayette in un luogo nel quale i clienti potessero vivere nel “suo” mondo, con tanto di caffè brandizzato e cabina per le foto tessere. Infine c’è l’idea di Patagonia, che nel 2011 ha comprato una pagina sul New York Times per invitare i lettori a NON comprare la sua giacca. Non si promuoveva qui un prodotto quanto una riflessione sull’impatto ambientale del consumismo, un argomento che da sempre è caro al brand di abbigliamento tecnico. Un futuro percorribile perché la moda rimanga rilevante per Gen Z e Millennial italiani, in fondo, esiste, e alcuni tentativi sono stati già fatti con successo; ciò che rimane da capire è se i brand avranno l’intelligenza di prendere al volo questo treno, che, considerati i trend di mercato, potrebbe essere l’ultimo.
