Un viaggio in tutto quello che c'è dietro un abito. Tecnologia e artigianalità, in una filiera quasi totalmente integrata.
Nel documentario The September Issue era il fashion editor a cui la direttrice Anna Wintour cassava il servizio fotografico già realizzato: lui si affliggeva, minacciando a mezza voce misure drastiche, di fronte alla sua superiore Grace Coddington: «Ora mi ammazzo». Coddington cercava di consolarlo, dicendo che un servizio cassato e da rifare, in carriera era capitato a tutti. Da allora – il documentario è del 2009 – ne è passata di acqua sotto i ponti, e nel frattempo Edward Enninful è diventato uno dei nomi più rilevanti nell’editoria di moda. Gli inizi giovanissimo con il magazine britannico seminale i-D di cui diventa fashion director a soli diciott’anni; poi la parentesi con Vogue America e pure con il Vogue Italia di Franca Sozzani, per il quale realizza alcune delle copertine passate alla storia, come quella del Black Issue – dove le protagoniste erano esclusivamente modelle nere. Infine, dopo alcuni anni da style director del W Magazine – nel quale i dati della raccolta pubblicitaria, raccolti da Media Industry Newsletter, magnificavano la sua guida e il suo impatto sui brand – è tornato da Vogue, divenendo direttore dell’edizione inglese, e stabilendo diversi record e primogeniture: primo uomo, gay, nero, e con una disabilità, seppure non visibile ad avere quel ruolo. Enninful soffre infatti una condizione genetica che si chiama “tratto dell’anemia falciforme”e che gli ha causato in sei occasioni il distacco della retina, lasciandolo oggi con una visione parziale.
Da British Vogue a 72
Enninful è indubbiamente un creatore di immagini che è sempre stato capace di decifrare la società, inserendo la moda in un discorso ben più ampio delle tendenze stagionali, tanto già che nel 2012 il New York Times lo aveva chiamato “An image maker who gets the picture”. Dal 2017 al 2024 – il periodo nel quale ha mantenuto il titolo di direttore – ha allargato le maglie del significato di giornale “patinato”, come vengono definiti i magazine di moda, e spostato i confini estetici che quell’edizione specifica conservava in retaggio. Ha messo in copertina personalità di rilievo per la comunità nera, ma anche per il resto del mondo (Rihanna, Beyoncé, Viola Davis), donne diversamente abili, ma pure conducenti della metro, ostetriche e commessi del supermercato (nel numero di luglio 2020 dedicato ai lavoratori essenziali durante il Covid); dietro le quinte ha inoltre assoldato giovani, a volte giovanissimi, ai quali ha concesso la sua fiducia, e la possibilità di scattare le copertine, come nel caso di Kennedi Carter, ventunenne a cui è toccato l’onore e l’onere di scattare Beyoncé. E in effetti, quando nel 2022 è stata pubblicata la sua biografia, A visible man, intervistato da Grazia Uk ha detto «Non ho mai voluto essere l’unica persona nera nella stanza».
L’ultima sua avventura è cominciata a settembre con diversi party, uno per ogni fashion week, a New York, Londra, Milano e Parigi, utili a presentare il suo nuovo magazine 72, l’anno di nascita dell’anglosassone di origini ghanesi. A Milano la festa è stata ospitata all’interno del Portrait Hotel, con la collaborazione di Moncler (per il quale Enninful ha realizzato in passato una collezione di abbigliamento all’interno del progetto Genius, un hub creativo nel quale professionisti provenienti da settori diversi sono invitati a progettare delle capsule). Tra le pagine di 72, che costa diciotto euro e avrà quattro numeri l’anno, ci sono servizi fotografici firmati da Inez&Vinoodh con Pharrell, Oprah Winfrey e Luca Guadagnino, ritratti nelle loro case; Marc Jacobs che parla delle sue abitudini prima di andare a letto; la copertina con Julia Roberts, intervistata dall’amico George Clooney. Un “chi è chi”, capace di mostrare senza dover parlare quanto si è allargata e solidificata negli anni la rete sociale del fashion editor del documentario del 2009, ma niente che possa definire il magazine come controtendenza nel mondo dell’editoria di moda. E, in effetti, molti avidi consumatori di giornali di moda hanno dato voce al proprio cruccio sui social, lamentando un magazine quasi “ordinario” rispetto alle alte aspettative riposte in qualunque cosa Enninful realizzi. 72 è il primo prodotto della sua compagnia multimediale, EE72, con 25 dipendenti, di cui sua sorella Akua Enninful – che ha lavorato con lui nei quindici anni nei quali gli ha fatto da agente – è direttore esecutivo. Al momento EE72 dispone di un sito web e ha al suo interno un’agenzia creativa, con piani futuri che prevedono creazioni di podcast, video e forse anche film e prodotti, così come succede già per alcune realtà editoriali, come fa Cabana o lo stesso Vogue, che ha sul suo sito una sezione shopping nella quale è possibile acquistare felpe, cappellini e agende contraddistinte dal logo della rivista.
Come funziona un magazine senza pagine pubblicitarie?
Ciò che nel magazine, visibilmente, manca, sono le pagine pubblicitarie. Parlandone con Vanessa Friedman, che lo ha intervistato per il New York Times, Enninful ha detto “tutti i giornali hanno dei numeri da vendere in edicola, numeri di budget pubblicitari che devono necessariamente raggiungere. Nel mio caso è la piattaforma (di EE72, ndr) che rafforza il giornale, ma l’azienda non dipende dal giornale per esistere. Non siamo qui per dirti “dammi una pagina di pubblicità, metto il tuo brand nel servizio fotografico”». Sostanzialmente, questo vuol dire investire nella media company per dei progetti che possono essere di varia natura (un video, un podcast, un documentario o un evento) senza che quel tipo di contributo si palesi fisicamente sul giornale nella forma di una pagina pubblicitaria. 72, come succede già altrove nel mondo dei magazine indipendenti, diventa così un riferimento estetico, un oggetto materiale nel quale possono rivivere i valori e gli interessi della compagnia multimediale, che però guadagna non tanto attraverso le vendite delle singole copie o dagli investimenti dei brand che nel mondo di quel giornale si riconoscono, quanto attraverso l’agenzia creativa interna, che magari può realizzare campagne fotografiche o altri prodotti editoriali, come nel caso dei magazine “white label” dicitura che indica giornali o libri commissionati da un singolo brand o azienda, e destinati ad una circolazione interna (tra i propri clienti e i fornitori).
Un format che però non è replicabile o applicabile in larga scala ad altri giornali indipendenti che non hanno come frontman un uomo con la reputazione e la rete di contatti di Enninful, così come è necessario un ingente investimento iniziale, che possa permettere di realizzare sin da subito dei prodotti di grande qualità (dietro il progetto di EE72 c’è un finanziatore del quale Enninful non ha voluto fare il nome al New York Times). Inoltre, eliminare le pagine pubblicitarie vuol dire rendere invisibili rapporti commerciali che, seppur in una forma diversa e meno diretta, esistono comunque. Forse questa scelta, trasparente o meno, è anche guidata da un cambio di passo collettivo.
La percezione delle pubblicità sui giornali è in effetti sensibilmente cambiata nel corso degli anni: in The September issue la redazione di Vogue e Anna Wintour parlavano con un certo vanto del peso (in chilogrammi) del numero di settembre, perché a quella foliazione – che arrivava spesso a superare le 900 pagine – contribuivano largamente le pubblicità, e quindi iniezioni di denaro da parte dei brand. Per chi lo acquistava allora, quell’oggetto era la materializzazione di un sogno, di abiti con i quali immaginarsi protagoniste di serate memorabili, di fotografie e interviste a celebrità che prima dei social erano più vicini a semidivinità che a degli esseri umani. Di conseguenza, che quel sogno avesse un suo peso specifico era ragionevole. Oggi, il pubblico degli appassionati di moda vede in quello stesso spessore solo un segnale delle relazioni di stretta dipendenza che intercorrono tra giornale e brand, e che negli anni hanno appiattito l’offerta editoriale. E nessuno lo ha capito, di nuovo, meglio di Enninful. He gets the picture.