Cultura | Dal numero

Don DeLillo, cinquant’anni di grande letteratura

Dal numero in edicola, la vita e le opere del più celebrato scrittore americano vivente, dagli esordi fino all'ultimo romanzo, Il silenzio, uscito il 2 febbraio in Italia.

Steve Pyke, via Getty Images

Ha 84 anni e di romanzi ne ha scritti 18, incluso l’ultimo, Il silenzio (Einaudi) appena uscito in Italia, e il finto memoir di una giocatrice di hockey su ghiaccio, Amazons (1980), firmato Cleo Birdwell, di cui solo nel 2020, con un’intervista al New York Times, ha ufficialmente riconosciuto la paternità. Oltre che «poeta laureato del terrore», una definizione di Martin Amis, ricopre anche la carica, divisa forse con il solo Thomas Pynchon, di “più grande scrittore americano vivente”, per aspirare alla quale è necessario aver scritto romanzi molto grandi, imponenti, Great American Novel proprio come mole, oltre che possibilmente intrecciati alla storia americana. Don DeLillo la condizione l’ha soddisfatta con Underworld (1997), una lunga epica moderna in cui si alternano prima e terza persona, e che si snoda dal Dopoguerra alla fine del Novecento attraverso i passaggi di mano di una pallina da baseball recuperata da una storica partita del ’51: Brooklyn Dodgers contro New York Giants. Ma DeLillo è anche autore di straordinari romanzi “medi” (sempre dal punto di vista della lunghezza), tra cui l’enigmatico spy esotico-mediterraneo I nomi (1982), il cui protagonista, James Axton, di stanza ad Atene, analizza per una compagnia di assicurazioni la quantità di rischio politico dei Paesi mediorientali; l’unico suo romanzo “factual”, Libra, quasi una biografia romanzata del killer di Kennedy, Lee Harvey Oswald; e naturalmente il più celebrato Rumore bianco (1985), un college novel contaminato da paure atomiche, che gli valse il National Book Award e la definitiva consacrazione di maestro del postmoderno.

Proprio dopo la stesura di Underworld, il suo libro più lungo, per la prima volta nella sua prolifica carriera letteraria, iniziata cinquant’anni fa nel 1971 con Americana, DeLillo approdò alla forma breve, e non nel senso della “short story” – i pochi racconti che ha scritto tra il ’79 e il 2011 sono stati raccolti nell’Angelo Esmeralda – ma in quello di romanzo di poche pagine, arrivandoci con The Body Artist (2001), una scarnificata meditazione sul lutto che all’epoca diede a tutti l’impressione di essere qualcosa di molto diverso da quello a cui ci si era abituati a identificare come delilliano.

Da lì in avanti, invece, la categoria del “romanzo breve delilliano” si è ingrossata con altri esemplari, diventando un genere a sé stante. È del 2010 Point Omega, un dialogo nel deserto sotto forma di romanzo tra uno di quei tipici personaggi delilliani, a metà tra un intellettuale e una spia, e un regista un po’ fallito in cerca di materiale per un film: condensato e sibillino, certo, ma forse l’opera più riuscita dello scrittore dai tempi di Underworld. Dieci anni dopo e un romanzo “medio” in mezzo (Zero K è del 2016), è uscito negli Stati Uniti The Silence, un romanzo dalle dimensioni impalpabili – 103 pagine nell’edizione italiana – che, oltre a rientrare nella categoria, viene preceduto dalla fama di essere particolarmente in sintonia con lo stranissimo tempo che stiamo vivendo, anche se è stato scritto prima che tutto questo accadesse.

Il silenzio, Don DeLillo (Einaudi)

The Silence è la storia di un’apocalisse ambientata in una New York deserta, si sente dire dai primi rumors; un libro in cui qualche editor, come si evince dall’intervista di David Marchese pubblicata sul New York Times in occasione dell’uscita, aveva deciso persino di far comparire la parola “Covid-19” senza interpellare l’autore: «Non sono stato io a metterla. Qualcun altro l’ha fatto. Qualcun altro ha deciso che quella parola lo avrebbe reso più contemporaneo, ma io ho detto che non c’era nessuna ragione per farlo», risponde lo scrittore. Le ragioni sono così poche, in effetti, che, Covid o non Covid, quello stesso articolo è intitolato “Viviamo tutti in un mondo alla DeLillo”.

Sono diversi gli scrittori dotati di capacità semi divinatorie e che hanno visto le cose prima che accadessero (William Gibson, per fare solo un nome, immaginò un mondo connesso in rete e governato dalle multinazionali già negli insospettabili anni ’80), ma pochi, pochissimi, hanno saputo, al pari di DeLillo, individuare così precisamente il punto in cui le paure di una civiltà si trasformano in realtà. Il pensiero va innanzitutto al World Trade Center e all’Undici settembre, un avvenimento così delilliano che lo scrittore fu una delle voci più ricercate per commentare l’attentato: «DeLillo è il poeta laureato del terrore», scrive Amis nell’Attrito del tempo (raccolta di articoli e saggi pubblicata da Einaudi), «canta il terrore moderno
 e postmoderno e il modo in cui questo aleggia
 e balugina nella nostra mente a livello subliminale». Ed è quello che succede anche con The Silence, nonostante l’età ormai avanzata – a leggerlo sembra strano pensare che sia nato negli
 anni ’30 – e un certo ostinato rifiuto per la tecnologia che lo tiene apparentemente distaccato
 dal mondo – scrive ancora a macchina, non usa
le mail – DeLillo deve aver sentito un nuovo terrore alleggiare e ha voluto portarlo sulla pagina.

«Sono diversi gli scrittori dotati di capacità semi-divinatorie e che hanno visto le cose prima che accadessero ma pochi, pochissimi, hanno saputo, al pari di DeLillo, individuare così precisamente il punto in cui le paure di una civiltà si trasformano in realtà»

Una coppia che viaggia in business class da
Parigi a Newark. Un interno borghese, dove si trovano un’altra coppia di mezza età e un secondo uomo, più giovane, in attesa di assistere all’evento sportivo americano per eccellenza, il
 Super Bowl. Le due scene sono segnate da una frattura del tempo (Einstein è il nume tutelare
del libro, sin dall’epigrafe: «Non so con quali
 armi si combatterà la Terza guerra mondiale,
ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni»). La frattura sembrerebbe essere una specie di black-out, un’interruzione dell’energia mondiale. Lo schermo su cui il Super Bowl sta per essere trasmesso si spegne. L’aereo, in fase di atterraggio, riesce a mettere le ruote a terra con una manovra di emergenza. Le due coppie hanno un appuntamento per guardare il Super Bowl insieme e si ritrovano, alla fine, tutti e cinque nella casa sullo sfondo di una New York surreale dove nessuno sa esattamente cosa sia successo.

«Nessuno vuole chiamarla Terza guerra mondiale, ma è di questo che si tratta», dice Martin, un personaggio. «Alcuni Paesi. Un tempo accaniti sostenitori delle armi nucleari, parlano adesso la lingua delle armi viventi. Germi, geni, spore, polveri», si legge. «Ci è già capitato tante, e tante volte di assistere in questo Paese come altrove, forti temporali, incendi incontrollati, evacuazioni, tifoni, tornado, siccità, nebbia fitta, aria irrespirabile. Frane, tsunami, fiumi che scompaiono, case che crollano, interi edifici che si sgretolano, cieli oscurati dall’inquinamento. Chiedo scusa, prometto che cercherò di stare zitta. Ma abbiamo ancora freschi nella nostra mente i ricordi del virus, della peste, delle code infinite nei terminal degli aeroporti, delle mascherine, delle vie cittadine completamente vuote», dice Tessa, un altro personaggio. Più che un romanzo, Il silenzio è uno scheletro di romanzo che ricorda uno spoglio atto teatrale, una caratteristica che a pensarci si ritrova in tutta la produzione breve di DeLillo, ma che qui risalta in misura ancora maggiore. Nient’altro che personaggi che parlano. Uomini e donne che emettono frasi apodittiche sul senso del mondo e dello stare al mondo; frasi che suonerebbero false e inverosimili se DeLillo non fosse abilissimo nel farle pronunciare con il suono e il ritmo giusto, come se fosse totalmente plausibile durante una cena tra amici parlare di Einstein e della fine del mondo. In realtà nessuno nei romanzi di DeLillo è veramente un personaggio, tutti parlano con la stessa voce: il flusso di pensieri di un asceta che testimonia di un crollo colossale, o il sussurro dentro l’orecchio pronunciato da un testimone del futuro.

La frase, più della pagina, più della trama, più dei personaggi, appunto, è l’elemento principe della sua scrittura. In inglese si chiama sentence, e il calco in italiano funziona ancora meglio: ogni frase di questi romanzi suona come una sentenza. Bill Gray, lo scrittore protagonista di Mao II sembra confermarlo, quando DeLillo a un certo punto gli fa dire: «Ho sempre rivisto me stesso nelle frasi… Il linguaggio dei miei libri mi ha formato come uomo. C’è una forza morale nella frase che viene fuori bene. Ci dice che lo scrittore vuole vivere».

In questo senso forse non è un caso, che lo scrittore, prima di uscire – peraltro tardi, nel 1971, a 35 anni – con il suo primo romanzo, Americana, lavorò per 5 anni come copywriter alla Ogilvy, nota agenzia di pubblicità: «Il problema di quel lavoro non era la scrittura, erano le idee», dirà molti anni dopo. Cinque anni però che gli saranno serviti per prendere confidenza con la civiltà dei prodotti e per far suonare le frasi dei suoi romanzi in modo così persuasivo.

È strano pensare che lo scrittore che più di ogni altro è stato identificato con la contemporaneità, che lo scrittore più bravo a capire vizi e virtù della società americana, sia un figlio diretto della regione italiana più arretrata e remota, il Molise. Don DeLillo nasce nel 1936 a New York, ma da padre e madre emigrati da Montagano, provincia di Campobasso, dopo la Prima guerra mondiale; una traccia nei suoi libri di queste origini si trova ancora in Underworld, dove si parla del padre di Nick Shay, il protagonista, nato «near town called Campobasso, in the mountains, where boys were raised to sharpen knives».

DeLillo invece cresce nella Little Italy del Bronx, non lontano da Arthur Avenue, la sua arteria principale, «the best place for bread, pasta, meat, pastries, espresso machine», si legge su qualsiasi sito turistico. Al Guardian ha detto: «Eravamo in tanti in una piccola casa striminzita del Bronx che esiste ancora oggi. C’erano cinque persone al piano di sopra – i miei zii e i miei tre cugini maschi – noi eravamo quattro e poi c’erano i miei nonni, quindi eravamo in undici, ma nessuno si è mai lamentato». E così come i suoi nonni non impareranno mai l’inglese, DeLillo, nonostante l’origine diretta, non imparerà mai l’italiano. Verrà cresciuto come americano, anche se la sua scuola, come ha più volte detto, sarà la strada, con un’educazione fatta di violenze quotidiane, sopraffazioni, guerre tra bande.

«DeLillo è il poeta laureato del terrore», scrive Amis nell’Attrito del tempo, «canta il terrore moderno e postmoderno e il modo in cui questo aleggia e balugina nella nostra mente a livello subliminale»

Forse questa condizione, a metà tra l’estraneità e l’inclusione, è il punto di vista ideale, quello con la visuale più limpida, per poter appuntare lo sguardo su un qualunque oggetto, che nel caso di DeLillo è chiaramente l’America, l’Occidente. Ci si trova dentro, ma fino a un certo punto. C’è una certa forma di verginità, di curiosità esplorativa, che lo scrittore è riuscito a preservare. Questo miscuglio di mitologia e paranoia di cui è composta la materia delilliana potrebbe avere a che fare con la prospettiva di americano di seconda generazione. Un figlio di immigrati che guarda alla grandezza imperiale con un misto di ammirazione e paura.

Il terrorismo e lo sport, i due grandi pilastri dei romanzi di DeLillo rispondono a questo sentimento ambivalente e trovano in The Silence una specie di chiusura del cerchio. Se End Zone era la storia di un giocatore di football in erba, e Amazons, firmato sotto falso nome, la cronaca di un’ascesa irresistibile nel luccicante mondo dello sport professionistico, se con Underworld la stessa storia americana veniva simboleggiata da una pallina, in The Silence lo schermo si spegne un attimo prima che inizi il Super Bowl. La partita non ha nemmeno inizio. È la fine.